Nella formazione del canone della narrativa novecentesca ha prevalso quella che, da un assai fortunato titolo di Renato Barilli [
nota1], viene definita la linea Svevo-Pirandello. A ciò hanno contribuito, a partire soprattutto dagli anni '60, sia la neoavanguardia cosiddetta fenomenologica (Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Umberto Eco), sia anche, in qualche misura, la critica marxista. E' del marxista Arcangelo Leone De Castris, per esempio, la contrapposizione tra la letteratura "analisi di contraddizioni" (quella di Svevo e di Pirandello, la cui attività sarebbe volta ad analizzare le contraddizioni della società contemporanea, soprattutto al livello della coscienza dell'individuo) e la letteratura "forma di valori" (quella di D'Annunzio, ma anche dei vociani, i quali userebbero il linguaggio letterario non come strumento conoscitivo ma come forma retorica che traveste e mistifica il sistema di valori borghese) [nota2].Questo canone, grosso modo, funziona, anche se resta il problema dell'inserimento o meno in esso di scrittori come Tozzi e (per quanto riguarda prevalentemente il secondo Novecento) come Gadda, un po' frettolosamente considerato da Barilli a mezza strada tra naturalismo e sperimentalismo. Desta tuttavia una forte perplessità un criterio di valutazione che sempre più ha assunto valore fondante: in base ad esso la narrativa moderna, e tanto più quella d'avanguardia, deve essere aideologica, non potendo svilupparsi se non sulla base di una sospensione del giudizio. Teorici e critici acuti, come Barilli stesso e come Umberto Eco, hanno finito col fondare una retorica, se non un'ontologia dell'avanguardia, perdendo di vista il legame dei singoli scrittori e delle singole opere con le specifiche situazioni storico-culturali. Ora, a distanza di quasi un secolo dalle avanguardie primonovecentesche, credo che la storicizzazione sia l'operazione più utile. Tanto più che all'ontologizzazione del concetto di avanguardia letteraria rischia di aggiungersi un processo assai più pericoloso: l'ontologizzazione di una determinata concezione ideologica della contemporaneità, quella del cosiddetto postmoderno, il quale, pur presentandosi come un coacervo di tendenze e di stili, ha tuttavia alcuni caratteri fondamentali, che formano un nucleo ben connotato: che consiste nel rifiuto del discrimine, nell'assenza programmatica della scelta, nella coesistenza adialettica degli opposti; in altre parole, nella sospensione del giudizio considerata non come condizione di necessità, conseguente a una crisi della conoscenza e del sistema dei valori, ma come atteggiamento di per sé positivo e quindi da raccomandarsi in ogni circostanza. L'avanguardia, nata dalla tensione di un progetto di ricerca conoscitiva ed espressiva con la datità anche materiale di una determinata situazione storica, nella sua degenerazione postmodernista si riduce a essere semplice innovazione retorica, finendo inevitabilmente col perdere anche quel rapporto interattivo con le nuove prospettive epistemologiche nel campo della filosofia e delle scienze che ha costituito il suo principale merito storico-culturale.
La corrente fenomenologica, che all'interno della neoavanguardia è stata la più attiva, almeno al livello dei mass-media e dell'organizzazione culturale, ha influenzato profondamente, in forma sia palese che sotterranea, la critica dell'ultimo trentennio. Di fatto, a partire dagli anni '60, viene penalizzata, particolarmente dai critici semiologici e da quelli d'ispirazione lacaniana, la sperimentazione dietro la quale non sia riconoscibile una poetica fondata sull'ambiguità come finalità esplicita dell'opera letteraria. Gli scrittori che professano un'ideologia "forte" vengono tenuti ai margini del canone, anche se, come i "moralisti" vociani (Scipio Slataper, Giovanni Boine, Piero Jahier), si dichiarano sperimentali, perché il loro sperimentalismo viene considerato ancora compromissorio con le poetiche del passato. Oppure -è il caso di Tozzi- vengono accolti nel canone sia per l'importanza storico-culturale dello sperimentalismo da loro praticato sia per il loro riconosciuto valore letterario, ma viene negato il ruolo, nelle loro opere, dell'ideologia quale elemento strutturante la materia narrativa. Il che significa rendere difficoltosa, se non impossibile, la comprensione del loro messaggio. Tozzi ha apportato, nel campo della nostra narrativa, una rivoluzione, che, come ha notato per primo Giacomo Debenedetti, lo inserisce a pieno titolo nel numero degli scrittori dell'avanguardia europea primonovecentesca: ha disintegrato le strutture narrative tradizionali esasperando all'estremo la paratassi; ha abolito il nesso causale e ogni gerarchia riconosciuta nei rapporti tra i fatti narrati, sì che quelli più insignificanti in apparenza diventano i più perturbanti; ha frazionato il tempo della narrazione distruggendone la continuità e riducendolo a una sequenza di attimi ognuno scollegato dagli altri; ha sostituito alla logica del senso comune una logica totalmente onirica. Il significato del messaggio trasmesso dai suoi romanzi e dalle sue novelle tuttavia non può essere colto adeguatamente se non si vede la relazione tra le nuove, rivoluzionarie strutture formali e il fattore ideologico, rappresentato dal cattolicesimo. Il quale non può essere considerato soltanto, e semplicisticamente, in chiave di conservazione culturale. Tozzi sentiva l'esigenza di vedere legittimata la sua accesa, diciamo pure patologica sensibilità, dall'incontro con una forma storica dello sviluppo culturale, che la legittimasse. L'incontro con Tommaso d'Aquino e con Caterina da Siena serve a Tozzi per sciogliere il groviglio della sua "anima", per dare alla sua scrittura il carattere di un'operazione di disvelamento della realtà. Il cattolicesimo apre quindi, per Tozzi, uno spazio di ricerca psicologica e di sperimentazione di nuove forme narrative. La perdita della centralità dell'io, l'eclisse della razionalità, il cedimento al caos - aspetti della condizione dell'uomo contemporaneo che, per la consapevolezza e la programmaticità con cui vengono rappresentati nelle sue opere, fanno di Tozzi un esponente emblematico della modernità- coesistono in lui con l'esigenza di una corrispondenza totale delle parole alle cose garantita da un'ideologia "forte" come quella cattolica. Egli enuncia la poetica dei "misteriosi atti nostri", in base alla quale i fatti apparentemente più inessenziali e gratuiti sono quelli potenzialmente più gravidi di significato, e contemporaneamente assegna alla religione rivelata la funzione conoscitiva di sonda gettata nell'inconscio. Dalla tensione tra due opposte tendenze, quella masochistica all'autodistruzione e quella, paradossale, alla riconquista del significato dell'esperienza attraverso l'autodistruzione stessa (di cui è figura il sacrificio di Cristo), si generano lo spazio narrativo e l'energia espressionistica dello stile. Ridurre la problematica tozziana a semplice problema epistemologico (come fa una parte della critica) equivale quindi a ridurne drasticamente il significato e la portata.
Ma dall'identificazione dell'avanguardia aideologica con l'avanguardia tout court finisce per essere compromessa anche la comprensione di quegli autori che, nelle loro opere più significative, esplicitamente rifiutano l'ideologia, e programmaticamente cercano di escluderla dalla pagina. I primi due romanzi di Italo Svevo, per esempio, Una vita e Senilità, da gran parte della critica vengono collocati su una linea che senza inversioni di rotta condurrebbe a La coscienza di Zeno; cioè vengono considerati come progressivi avvicinamenti a una forma narrativa in cui ogni presupposto ideologico è dissolto dalla corrosione analitica. Non ci si avvede come, viceversa, in Senilità lo spazio narrativo è creato dalla tensione tra il giudizio esplicitamente espresso da un narratore onnisciente e la falsa coscienza del personaggio, che viene demistificata grazie alla fermezza ideologica e morale di quel punto di vista, che sistematicamente le si oppone. Alcuni critici affermano poi che La coscienza forma un unico "progetto" con quei testi narrativi che, nell'intenzione di Svevo, facevano parte di un romanzo che ne doveva essere la continuazione [
nota3] ("progetto" interrotto dalla morte improvvisa dell'autore). Ma essi non considerano che l'invenzione del duplice punto di vista (del narratore Zeno e dello psicoanalista che prende la parola nella Prefazione) costituisce la specificità formale del romanzo, e che tale duplicità è assente nei testi in questione. Con la conseguenza che, mentre nella Coscienza è messa per così dire in scena la sospensione del giudizio (con la proposizione di due punti di vista opposti, entrambi validi-non validi, in assenza del punto di vista dell'autore), negli scritti che dovrebbero continuare il romanzo un giudizio viceversa ricompare: quello del vecchio Zeno, la cui voce è l'unica che si pronuncia sulla realtà. Ma Zeno vive ora in una dimensione temporale dalla quale è assente il futuro; il suo è un presente cristallizzato nel quale non hanno spazio né progettualità né sensi di colpa. L'esplosione enorme di cui si parla nell'ultima pagina della Coscienza, che riducendo la Terra a una nebulosa farà scomparire insieme la malattia e la vita, al livello psicologico evidentemente è già avvenuta. La realtà è immobile, morta. L'attività alla quale si è ridotto il vecchio Zeno, il quale registra, con la scrittura, vicende che egli sa prive di qualsiasi possibilità di sviluppo, è un'efficace metafora del rapporto, nella società contemporanea, tra letteratura e vita: entrambe prive di senso. Ci troviamo, di nuovo, di fronte all'ideologia: un'ideologia totalmente nichilistica.La caratteristica specifica della grande avanguardia narrativa, italiana ed europea, dei primi tre decenni del nostro secolo, non è la aideologicità (del resto impossibile), ma piuttosto la consapevolezza del carattere non neutrale del linguaggio. Tale consapevolezza non è necessariamente in relazione con l'ideologia politica, sia essa conservatrice o progressista. Essa è però indispensabile per comprendere la dimensione storica di ogni esperienza, soprattutto interiore. Se cerchiamo un elemento comune alle avanguardie storiche della prima metà del secolo, letterarie, figurative, cinematografiche, credo possiamo trovarlo nella convinzione che ogni esperienza è irriducibile a esperienze in apparenza analoghe di altri uomini e di altre epoche, e che quindi ogni artista deve porsi radicalmente, ex novo, il problema del linguaggio. L'imitazione classicistica dei modelli è rifiutata da quelle avanguardie in nome della storicità. Viceversa la Neoavanguardia, nella sua corrente neofenomenologica, rinuncia alla storicità in nome di un avanguardismo programmatico e dogmatico. Essa reintroduce di fatto il concetto di imitazione, sia pure con una variante rispetto al classicismo, in quanto l'imitazione è ridotta a processo di consumo. In questo modo, la Neoavanguardia fenomenologica non ha fatto altro che preparare la strada al Postmodernismo (nelle cui posizioni, in effetti, si riconoscono ora alcuni dei suoi esponenti), il quale ha dichiarato una sorta di fine della Storia derivante dalla omogeneizzazione su base planetaria delle culture particolari. Nel contesto della cultura postmodernista non si può più parlare di critica del linguaggio, ma di uso e manipolazione dei linguaggi a fini ludici, nel migliore dei casi, o propagandistici, nel peggiore e purtroppo più frequente.
L'"opera aperta", strutturata in modo da trasmettere un messaggio deliberatamente ambiguo, sì da chiamare implicitamente il destinatario a collaborare alla costruzione del senso, è una delle forme usate dall'avanguardia storica, ma non la sola. Il problema principale che ogni avanguardia si trova ad affrontare è quello di restituire al linguaggio la significatività che ha perso a causa della corrosione prodotta dall'uso, o, se la perdita appare irrecuperabile, di segnalarla mediante la trattazione di tematiche dichiaratamente convenzionali e l'uso di un linguaggio artificiale. Particolarmente negli scrittori espressionisti è esasperata la sensibilità nei confronti delle forme obsolete del linguaggio, spia dell'obsolescenza delle forme culturali e sociali. Nella novella di Pirandello La mano del malato povero, il narratore, un malato relegato in un letto d'ospedale, non racconta la propria personale vicenda, ma quella del malato posto nel letto accanto al suo, della cui vita egli non sa nulla e del quale può vedere solo la mano. Fa questo perché constata uno scollamento tra l'esperienza reale e il linguaggio che dovrebbe esprimerla. Se tra le parole e le cose è andato perso qualsiasi rapporto, tanto vale raccontare una storia ipotetica con un linguaggio artificiale (mettendo le parole "di traverso" [
nota4]). La forza di questo racconto sta evidentemente non nel patetismo della situazione (la malattia, l'ospedale, la morte), ma nel senso di una perdita irrecuperabile: quella della possibilità di dare direttamente voce al proprio più profondo disagio.I "moralisti" vociani ed Enrico Pea -ascrivibili al cosiddetto espressionismo stilistico, dal momento che il loro lavoro sul linguaggio si svolge soprattutto, anche se non esclusivamente, al livello delle microstrutture- non ambivano certamente a raggiungere la polivalenza semantica e l'ambiguità dell'"opera aperta": al contrario intendevano inviare un messaggio il più possibile univoco. Trascurati o rifiutati dalla Neoavanguardia, appaiono ora del tutto irrecuperabili in una prospettiva postmodernista; il che, se è un segno di sfortuna, non è certo un segno di assenza di valore letterario. La conseguenza di ciò, purtroppo, è che Pea attualmente è uno scrittore pressoché dimenticato, non più presente neppure nell'ambito locale della Versilia e della Lucchesia, nonostante le sue innovazioni linguistiche (che destarono l'interesse di Gianfranco Contini) e nonostante i suoi procedimenti narrativi ellittici, fortemente eversivi del modello naturalistico; nonostante, anche, la trattazione di tematiche divenute poi d'attualità, come la follia, l'emarginazione, la costruzione della personalità su base non riduttiva, ma comprensiva delle tendenze psichiche più profonde, contraddittorie e anche autodistruttive. I vociani sono stati studiati assai intensamente negli anni '70, in una prospettiva però soprattutto sociologica e politica, e non sempre con l'attenzione dovuta alla specificità del loro linguaggio, già chiaramente indicata da Contini. Pesa nei loro confronti il giudizio di eccessivo ideologismo; per contro, non viene valutato in tutta la sua importanza storica lo strenuo lavoro di ricerca formale che essi hanno compiuto. Non si considera, soprattutto, la tensione che costantemente si crea nelle loro opere tra il fattore ideologico e volontaristico e quello che con terminologia freudiana possiamo chiamare "ritorno del represso"; tensione della cui presenza essi mostrano, al livello di poetica, di essere consapevoli, e che può esprimersi grazie al loro raffinato lavoro sul linguaggio.
La ricerca letteraria d'avanguardia, benché in genere connotata dalla consapevolezza del carattere ossimorico del linguaggio e dallo sfruttamento a fini espressivi della sua ambiguità, non è necessariamente in contraddizione con l'univocità di un impegno morale e politico, ma anzi talvolta è, di questo, il completamento e la verifica. Se infatti essa conduce a riconoscere l'alienazione nascosta dalle ideologie conservatrici e conformistiche, demistificando il linguaggio in cui esse si esprimono, questa operazione può iniziarla e portarla a compimento perché sollecitata da un'aspirazione all'integrità dell'esperienza che, se talvolta è negata in nome di un lucido pessimismo, talvolta - come nel caso dei vociani - è consapevolmente accettata, anzi posta a fondamento di un progetto culturale e politico.
La Neoavanguardia ha avuto quindi, nella formazione del canone della narrativa del primo Novecento, un ruolo determinante, dato che ha permesso di dare sistematicità a posizioni presenti (ma non teorizzate con lo stesso estremismo) anche in critici e storici della letteratura esterni ad essa. Si pensi per esempio a Debenedetti e alla sua interpretazione dell'opera di Tozzi in chiave di totale rifiuto non solo della logica positivistica (la logica "dei mangiatori di bistecche") ma anche di ogni sistema di valore, morale o religioso. All'interno della Neoavanguardia, hanno vinto sul piano storico le posizioni neofenomenologiche, che espungono l'ideologia dall'opera letteraria, accettandola solo come componente del "pastiche" o come astratta posizione conoscitiva il cui rifluire nella politicità viene comunque rifiutato. E' questa la diagnosi che delle posizioni di Angelo Guglielmi fa il principale esponente della cosiddetta Neoavanguardia ideologica, Edoardo Sanguineti: dai "fenomenologi" della Neoavanguardia -dice Sanguineti- può essere accettata solo un'ideologia il cui rifluire nella praticità viene costantemente respinto, e che quindi viene accuratamente mantenuta neutra da ogni responsabilità politica [
nota5].Il canone del primo Novecento che è risultato dalla dialettica interna dell'ultimo gruppo letterario organizzato del nostro secolo (la Neoavanguardia) finisce con l'essere riduttivo: gli scrittori al vertice del sistema di valori e proposti come modello sono i due indicati da Renato Barilli: Svevo e Pirandello, appunto. E secondo un criterio riduttivo vengono interpretate pure la loro ideologia e la loro opera narrativa: di Svevo vengono esaltate l'attitudine "aperta" e la disponibilità a far proprio il relativismo gnoseologico delle nuove scienze (atteggiamento, questo, che equivarrebbe in definitiva a una sorta di nuovo, più aggiornato e sofisticato ottimismo illuministico, fiducioso nel progresso della conoscenza e nella consapevole adattabilità dell'uomo a un mondo che muta), ma, dello scrittore triestino, vengono ignorati il pessimismo radicale, la coscienza tragica del carattere frantumato dell'esperienza e dell'esito inevitabilmente catastrofico della vicenda umana (la deflagrazione immane che viene annunciata nell'ultima pagina della Coscienza di Zeno non è certamente un innocuo fuoco d'artificio letterario); di Pirandello viene esaltato il "pirandellismo", inteso come atteggiamento di pregiudiziale e perciò aproblematico relativismo, e non piuttosto la consapevolezza del processo storico che ha portato alla moderna condizione di scissione e di alienazione (consapevolezza chiaramente visibile non solo ne I vecchi e i giovani, ma in tante altre parti dell'opus pirandelliano).
Fuori del canone proposto dalla Neoavanguardia rimane uno scrittore come Tozzi, ascrivibile a tutti gli effetti, come già segnalato da Debenedetti, all'avanguardia europea primonovecentesca. Tozzi ha un'ideologia ben connotata, di stampo conservatore-reazionario, al centro della quale c'è una visione della vita in chiave di cristianesimo primitivo. Questa ideologia, anche per le indicazioni esplicite forniteci dall'autore (la religione funge da fattore illuminante, che getta qualche sprazzo di conoscenza nelle zone più magmatiche e oscure della nostra psiche [
nota6]) assolutamente non può essere ignorata in una ricostruzione della genesi della sua narrativa. Debenedetti questo aspetto di Tozzi, cioè la consapevolezza ideologica, lo ha esplicitamente negato, e sulla sua scia lo hanno negato altri interpreti tozziani, e specificamente Luigi Baldacci. Tale presunta mancanza di consapevolezza teorica e critica (ma Tozzi, come è dimostrato dai saggi di Realtà di ieri e di oggi, è critico acutissimo), e quindi la sua presunta naïveté, sono, secondo Debenedetti, i fattori che hanno permesso a Tozzi di superare felicemente i limiti della sua cultura provinciale (pure presunta: si pensi al lungo sodalizio di Tozzi con Pirandello), e di collegarsi, sia pure in una posizione di minorità a causa della sua mancata attrezzatura teorica, ai grandi scrittori dell'avanguardia europea. Viceversa, proprio l'assenza di una poetica formulata in termini riconoscibilmente moderni, e soprattutto la massiccia presenza in lui di un'ideologia conservatrice e di una forte sensibilità religiosa, che lo rendevano alieno da qualsiasi relativismo, sono i fattori che hanno posto Tozzi fuori del canone della Neoavanguardia. Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Umberto Eco sono, per indole e per formazione, sideralmente distanti dalla tragicità del mondo tozziano, anche, e particolarmente, quando il tragico assume la forma del grottesco creaturale, e la loro teorizzazione dello stile basso come unica forma della modernità non può che far loro sentire inopportuno e alieno lo stile di Tozzi, il quale sia attraverso l'esasperazione lirica, sia attraverso il grottesco arriva alle altezze dello stile tragico.Non è importante, in questa sede, fare una cernita delle opere narrative escluse dal canone formatosi sotto l'influenza di quella corrente della Neoavanguardia che è risultata storicamente vincente, e che, col suo rifiuto di ogni impegno etico-politico e, soprattutto, con la degradazione, di cui è di fatto responsabile, dell'impegno conoscitivo a semplice ludus, ha contribuito in Italia a preparare la strada al Postmodernismo. Più importante è individuare la logica che l'ha guidata in queste esclusioni. Tale logica consiste nell'ignorare il carattere reale delle contraddizioni e il loro radicamento nella materialità di una situazione storica. Per cui, come di Svevo e di Pirandello veniva esaltata l'attitudine a collegarsi alle correnti più moderne del pensiero novecentesco, ma veniva sottovalutata la capacità di comprendere il processo storico in corso con tutte le sue implicazioni materiali, così degli scrittori vociani, che appaiono (e sono) attardati in poetiche tardoromantiche, veniva, e tuttora viene, ignorato l'impegno conoscitivo e la consapevolezza nell'uso degli strumenti formali, attraverso i quali, nel concreto dell'operazione narrativa, viene demistificata dall'interno l'ideologia esplicitamente enunciata. La conseguenza è che dal canone della Neoavanguardia (almeno da quello della narrativa) vengono esclusi gli autori espressionisti (a parte Pirandello, del quale tuttavia l'elemento espressionistico viene posto in secondo piano). Quella parte della Neoavanguardia che gradualmente slitterà su posizioni postmoderniste è insensibile alla tensione generata dal contrasto tra un'ideologia dell'impegno politico-morale e la refrattarietà, a tale impegno, sia delle strutture sociali sia delle stesse strutture psichiche individuali. Come risulta dall'analisi dello stile, il conflitto viene vissuto, da alcuni di questi scrittori (Slataper, per esempio) con serietà e con pathos tragico: quella serietà e quel pathos ai quali tanti, neoavanguardisti o postmodernisti, sono allergici.
Ancora un'osservazione, per quanto ovvia: la definizione di un canone è un'operazione che riguarda il passato, ma che si proietta nel futuro. Non c'è nessun dubbio che Svevo e Pirandello siano i narratori più grandi del primo Novecento italiano (ad essi però aggiungerei Tozzi: il Tozzi delle Novelle è grandissimo). Ma il riconoscimento dei valori letterari non è sufficiente: è necessaria anche, e soprattutto, la consapevolezza del sistema generale di valori in base al quale vengono pronunciati i giudizi. La questione del canone si inserisce nella questione più generale del senso che vogliamo dare alla vita.
Note
(1) R. BARILLI, La linea Svevo-Pirandello, Milano, Mursia, 1972.
(2) A. LEONE DE CASTRIS, Il decadentismo italiano, Bari, De Donato, 1974, pp. 83-153.
(3) Sono: Un contratto, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio, Il vecchione. I titoli (tranne Umbertino, di pugno di Svevo) non sono originali, ma adottati provvisoriamente nell'edizione Dall'Oglio. Questi frammenti, come risulta chiaramente da un'analisi tematica e stilistica, non solo sono estranei al "progetto" della Coscienza, ma sono il risultato di tentativi diversi e tra loro non omogenei. (Si veda in proposito: G. Contini, Il quarto romanzo di Svevo, Torino, Einaudi, 1980.)
(4) L'espressione è di Federigo Tozzi (F. TOZZI, Luigi Pirandello, in Realtà di ieri e di oggi, Milano, Edizioni "Alpes", 1928, p. 253. Ora anche in: F. TOZZI, Pagine critiche, a cura di G. Bertoncini, Pisa, Edizioni ETS, 1993. Questo volume contiene gli scritti critici tozziani già pubblicati in Realtà di ieri e di oggi, più altri reperiti dal Bertoncini).
(5) Gruppo 63 - Il romanzo sperimentale, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 51.
(6) "Quando si comprenderà che la religione è la nostra anima stessa, una parte profonda della nostra rivelazione, un mistero di meno, tornerà in onore servirsi di Tomaso d'Aquino per interpretare più esattamente la nostra anima" (F. TOZZI, Quel che manca all'intelligenza, in Realtà di ieri e di oggi, Milano, Edizioni "Alpes", p. 112); "Santa Caterina ci sbarazza di tutto ciò che c'impedisce di giungere fino al nostro io più profondo" (F. TOZZI, Prefazione alle "Più belle cose di Santa Caterina da Siena", in Realtà di ieri e di oggi, cit., p. 165).
(Versione html di Riccardo Castellana)