Preistoria e Archeologia.

Parte teorica.

Da: http://www.univ.trieste.it/~zuglio/all/storia/preistoria.introduzione.html

Il lungo periodo del passato dell’umanità precedente l’invenzione della scrittura viene comunemente denominato preistoria, in contrapposizione alla storia, il periodo per il quale possediamo documenti scritti. Questa distinzione non è in realtà giustificata, poiché tutto ciò che interessa l’uomo ne costituisce la sua storia, fin dalla sua comparsa sulla terra.
La preistoria, come scienza, nacque nella prima metà dell’Ottocento. Le conoscenze attuali sulle origini dell’uomo pongono a circa 2 milioni di anni fa la comparsa sulla terra del genere Homo, derivato da specie più antiche i cui primi passi possono essere seguiti nelle regioni meridionali e orientali dell’Africa fino a 2-3 milioni di anni fa. La preistoria s’interessa a quel lungo periodo della storia dell’uomo che precede i primi sistemi di scrittura, vale a dire dalle origini fino a 4.000-3.000 anni fa circa.
A differenza degli studi storici propriamente detti, l’archeologia preistorica, non disponendo di documenti scritti, prende in considerazione solo gli oggetti prodotti dall’uomo (manufatti) in funzione delle sue attività economiche, artistiche e spirituali. In questa prospettiva rientrano gli studi sull’evoluzione fisica e culturale dell’uomo, sulle sue attività quotidiane, sulle tecniche produttive e sul suo rapporto con l’ambiente circostante. Le ricerche sulla preistoria più antica (Paleolitico) hanno avuto l’avvio in Europa occidentale, e soprattutto in Francia, da parte di ricercatori di formazione prevalentemente naturalistica con il proposito di dare una collocazione cronologica ai resti scheletrici e ai prodotti dell’attività umana rinvenuti in numerose cavità di quelle regioni. Essi svilupparono perciò metodi mutuati dalle scienze geologiche e paleontologiche per inquadrare questi primi resti umani e i manufatti a loro associati. Dopo aver superato la fase iniziale del collezionismo di oggetti strani o inconsueti, l’archeologia preistorica moderna, intesa come mezzo di ricostruzione storica del passato, si propone, con metodologie sempre più perfezionate, di raccogliere e studiare tutti le informazioni utili alla ricostruzione dei modi di vita dei gruppi umani che si sono succeduti nel corso degli ultimi 2 milioni di anni. La ricostruzione degli avvenimenti e degli ambienti nelle varie epoche della preistoria si basa esclusivamente sulla ricerca e l’interpretazione dei resti materiali che si sono conservati, tra cui, in primo luogo, i prodotti delle varie attività umane, quali gli strumenti di pietra, la ceramica, i manufatti d’osso, ecc. Nell’interpretazione di queste, anche labili, testimonianze del passato si rendono indispensabili indagini relative all’ambiente naturale in cui l’uomo ha vissuto e dal quale è stato condizionato, adattandosi al variare del clima e della morfologia del paesaggio. L’analisi della cultura materiale viene pertanto svolta nell’ambito di una più ampia ricerca che prevede l’apporto di altre discipline rivolte allo studio dei terreni (geologia), dei resti ossei umani (paleoantropologia), dei resti ossei animali (paleontologia) e dei resti vegetali (paleobotanica).
Cronologia e inquadramento culturale della preistoria
Lo schema cronologico della preistoria europea comprende i seguenti periodi:
Paleolitico – è noto anche come antica età della pietra o età della pietra scheggiata; esso include le varie culture dei popoli cacciatori e raccoglitori dalle origini della comparsa del genere Homo, circa 2 milioni di anni fa, sino alla fine dell’ultima glaciazione, circa 10.000 anni fa. Il Paleolitico è suddiviso in inferiore, medio e superiore. La sua durata corrisponde al Pleistocene.
Mesolitico – è lo stadio culturale degli ultimi cacciatori-raccoglitori che si adattano alle modificazioni climatiche del Postglaciale; il Mesolitico corrisponde cronologicamente alle fasi iniziali dell’Olocene.
Neolitico – è noto anche come età della pietra nuova o della pietra levigata; esso rappresenta una fase di profondi cambiamenti nel modo di sussistenza delle comunità preistoriche. Durante il Neolitico sono introdotte tre fondamentali innovazioni: l’agricoltura, l’allevamento e la produzione della ceramica. Il Neolitico si sviluppa tra il VII e IV millennio a.C.
Età del Rame – durante questo periodo, noto anche come Eneolitico o Calcolitico, l’uomo si appropria della tecnica metallurgica che gli consente di apportare significative modificazioni anche nel sistema di sussistenza; l’età del Rame si sviluppa durante il III millennio a.C.
Età del Bronzo – uno sviluppo delle tecniche di lavorazione dei metalli consente la produzione di oggetti in bronzo, l’età del Bronzo vede rilevanti cambiamenti nell’economia e nelle strutture sociali delle comunità preistoriche. L’età del Bronzo si sviluppa dagli ultimi secoli del III millennio a.C. fino al IX-VIII secolo a.C., quando l’età del Ferro segna il passaggio all’età storica.
L’età del Bronzo e del Ferro vengono di solito riferite alla protostoria, anziché alla preistoria, poiché, durante questo periodo, in alcune regioni d’Europa hanno avuto origine culture che attestano la conoscenza della scrittura; la contemporaneità tra culture "analfabete" e culture dotate di sistemi di scrittura ha reso necessario un approccio diverso allo studio del passato. Se infatti lo studio della preistoria si fonda quasi esclusivamente sui resti archeologici e quello storico invece sulle fonti scritte, la protostoria, momento intermedio tra i due, necessita di un campo di ricerca che esige la convergenza di discipline molto diverse tra loro, come l’archeologia, la linguistica, l’epigrafia, la critica delle fonti scritte, l’etnologia.
Le glaciazioni
Durante il Quaternario il globo terrestre è stato interessato da importanti variazioni climatiche, influenzate da cause astronomiche, che nell’emisfero boreale hanno determinato fasi climatiche particolarmente fredde, dette glaciazioni. Le variazione dell’insolazione della superficie terrestre in conseguenza delle variazioni dell’eccentricità della terra, dell’inclinazione dell’asse terrestre e per effetto della precessione degli equinozi hanno determinato un generale irrigidimento del clima che ha causato la formazione di grandi accumuli di ghiaccio sulle terre emerse, divenuti sempre più rilevanti in rapporto all’aumento del clima freddo. La formazione di grandi calotte glaciali è avvenuta, inoltre, a spese delle acque degli oceani e dei mari il cui livello si è abbassato fino a un massimo di 120 metri in corrispondenza dell’acme glaciale verificatori attorno a 20.000 anni fa. I periodi glaciali sono stati intervallati da momenti con clima più temperato, nel corso dei quali il ritiro dei ghiacci e la risalita del livello del mare hanno portato a modifiche anche rilevanti nella morfologia del paesaggio. I periodi di miglioramento climatico tra una glaciazione e l’altra sono detti interglaciali, mentre le fasi di miglioramento climatico durante un periodo glaciale sono dette interstadiali.
Nella regione alpina, dove le ricerche sul glacialismo quaternario hanno avuto inizio durante i primi anni del secolo scorso, sono stati distinti quattro periodi glaciali, chiamati rispettivamente Günz, Mindel, Riss e Würm. La glaciazione di Günz è attribuita al Pleistocene inferiore, quella di Mindel e Riss al Pleistocene medio e, infine, la glaciazione di Würm al Pleistocene superiore.
Durante i periodi glaciali, la penisola scandinava è stata ricoperta da una calotta glaciale, detta inlandsis, che nel corso dei periodi di massima espansione (periodi pleniglaciali), si estese fino a sud del Mar Baltico, nell’Europa settentrionale.
Le variazioni climatiche hanno avuto notevoli conseguenze su tutto il mondo biologico poiché hanno determinato dei mutamenti sia nel tipo di vegetazione sia nelle faune dei territori interessati dal clima glaciale. Queste variazioni hanno inoltre condizionato l’uomo costringendolo ad adattarsi ai nuovi ambienti.
Lo scavo di depositi archeologici con serie stratigrafiche rilevanti contenenti in successione più livelli di occupazione fornisce la base di una sequenza cronologica relativa. Tale cronologia misura le differenze di età utilizzando una scala ordinale, nel caso della serie stratigrafica la datazione relativa dei vari livelli si basa sul presupposto che lo strato posto più in basso di tale sequenza sia più antico di quello situato più in alto.

La vita quotidiana durante il Paleolitico inferiore.
La presenza dell’Homo erectus  è documentata generalmente da concentrazioni di manufatti litici e di resti scheletrici di animali che presentano tracce di macellazione, di taglio o fratture intenzionali. L’organizzazione dello spazio abitato può risultare da alcune evidenze archeologiche come la diversa distribuzione di aree con resti ossei parzialmente separate da aree con manufatti litici e tra questi dalla concentrazione differenziata di alcune categorie di strumenti (ad esempio dei chopper e degli strumenti su scheggia), dalla presenza di superfici ricoperte di pietre di riporto (acciottolati) e da pavimentazioni ottenute con pietre piatte o infine dall’allineamento di blocchi di pietra. È difficile stabilire il significato reale di tali concentrazioni di reperti; nelle fasi più antiche i resti sono pochi, così è probabile che queste strutture corrispondessero a ripari, tende o a recinti di protezione dagli animali, mentre durante la fase più avanzata del Paleolitico inferiore, gli abitati diventano più estesi con allineamenti di pietre che delimitano aree di vari metri quadrati, capanne a pianta ovale, di cui ci rimangono le buche dei pali, e veri fondi di capanna rappresentati da depressioni scavate nel terreno circondate da muriccioli di pietra usati come paravento. Con la comparsa dell’Homo erectus si osserva una ben più grande capacità di adattamento a differenti situazioni. Due fattori hanno favorito questo adattamento: la conoscenza del fuoco; la maggiore importanza assunta dalla caccia e l’applicazione di nuove tecniche venatorie. Le tracce di fuoco più antiche che si conoscano risalgono ad un arco di tempo compreso tra 450.000 e 200.000 anni. I più antichi resti di carboni associati a un suolo d’abitato provengono da Terra Amata presso Nizza in Francia (380.000 anni), da Vértesszöllös in Ungheria (430.000-350.000 anni) e da Torralba in Spagna (250.000-130.000 anni). Il controllo del fuoco aumentò le possibilità di difesa, di conservazione e preparazione dei cibi e consentì la creazione di ambienti artificiali riscaldati, premessa della diffusione dell’uomo nelle regioni fredde. I resti scheletrici degli animali cacciati rinvenuti negli abitati del Paleolitico inferiore provano che le attività venatorie si erano raffinate. Le armi impiegate nella caccia sono, in base a quanto è noto sino ad ora, il giavellotto di legno e forse la zanna di elefante. Prove dell’uso di giavellotti in legno sono state documentate a Clacton-on-Sea in Inghilterra e a Schöningen (400.000 anni) in Germania. In entrambe le località sono stati rinvenuti frammenti di giavellotti in legno: nel primo caso si tratta di un frammento di punta, mentre nel caso tedesco furono rinvenuti i frammenti di ben cinque giavellotti di cui uno rotto in due pezzi e lungo più di due metri. I giavellotti di Schöningen erano utilizzati nella caccia ai cavalli lungo le sponde di un piccolo lago. Accanto alle armi dovevano essere adottate anche altre tecniche, quali le trappole artificiali e il fuoco. Le tecniche di caccia acquisite consentivano l’abbattimento sistematico di grandi mammiferi come l’elefante, il rinoceronte, il cavallo, il cinghiale, lo stambecco e il bue primigenio. La scelta era orientata di preferenza verso gli individui giovani che potevano essere più facilmente isolati e cacciati e davano anche carne di migliore qualità. Mentre si osserva un continuo sviluppo delle pratiche venatorie, sono pochissime le evidenze della raccolta di vegetali; allo stesso modo sono rare le tracce di raccolta di molluschi marini. Nel corso del Paleolitico inferiore muta anche l’utilizzo delle varie parti degli animali cacciati. Se nei primi tempi era sfruttata soprattutto la carcassa, in una seconda fase si osserva una decisa preferenza per le membra. Lo studio dei resti scheletrici in vari siti acheuleani rileva che i cacciatori macellavano gli animali fuori dalle aree abitate quotidianamente, abbandonandone la parte assiale dello scheletro e portando con loro gli arti anteriori e posteriori. È inoltre documentata la pratica di perforazione del cranio per consumare il cervello. L’organizzazione degli accampamenti e la pratica della caccia collettiva a prede di grande taglia, come agli elefanti e ai rinoceronti, suggeriscono un’organizzazione sociale molto sviluppata.
L’ambiente durante il Paleolitico medio
Al Paleolitico medio sono generalmente assegnati i complessi riferiti all’Homo di Neanderthal i cui resti scheletrici sono distribuiti nell’Europa meridionale e centrale, nel Vicino e nel Medio Oriente, entro un intervallo cronologico che abbraccia l’Interglaciale Riss-Würm e una parte della glaciazione di Würm all’incirca tra 130.000 e 35.000 anni dal presente.
Il miglioramento climatico che si è verificato durante l’Interglaciale Riss-Würm dà origine ad un nuovo sviluppo della vegetazione arborea; buona parte dell’Europa temperata e parte di quella mediterranea viene ricoperta da un fitto bosco di latifoglie. A questa fase temperata, con un clima caldo relativamente umido nel Mediterraneo occidentale ed arido nelle regioni interne del Medio Oriente, segue un raffreddamento generale che segna l’inizio della glaciazione würmiana con una prima fase con clima freddo-umido, seguita da una fase successiva con clima freddo-arido. Durante la glaciazione di Würm il bosco tende a scomparire lasciando spazio a una vegetazione a prateria o a steppa. L’espandersi della calotta glaciale artica determina un netto cambiamento climatico-ambientale che provoca successive ondate migratorie di animali di ambiente steppico. Alcune specie che caratterizzavano il Pleistocene medio, quali l’elefante antico, il rinoceronte di Merck e l’ippopotamo si spostano verso i territori più meridionali e si estinguono non riuscendo ad adattarsi alle nuove condizioni climatiche.Contemporaneamente a questa migrazione verso territori più temperati, si verifica una lenta occupazione dell’Europa centrale e meridionale da parte di specie artiche, come ad esempio il mammut, il rinoceronte lanoso, la renna, l’alce, il bue muschiato e alcuni roditori (lemming). L’effetto della glaciazione risulta mitigato nell’area mediterranea e tale situazione si ripercuote nella composizione delle faune; durante le prime fasi del raffreddamento, infatti, sopravvivono ancora l’elefante, l’ippopotamo e il rinoceronte assieme a sporadiche presenze di faune fredde.
L’aspetto fisico dell’Homo sapiens neanderthalensis
L’uomo di Neanderthal è noto dai resti scheletrici di oltre 300 individui la cui distribuzione si estende dall’Europa occidentale fino all’attuale Uzbekistan in Asia centrale. La parte dello scheletro con caratteristiche più marcate è costituita dal cranio; la sua architettura è, infatti, assai diversa da quella dell’uomo attuale. Il cranio dell’uomo di Neanderthal ha una capacità cranica media pari a 1.520 cc, di poco inferiore a quella dell’uomo di Cro-Magnon (Homo sapiens sapiens), ma superiore alla media dell’uomo attuale. La sua forma si differenzia da quella del sapiens, giacché essa è più lunga, larga e meno alta. L’osso frontale è meno elevato, più sfuggente. Nella parte anteriore si osserva un notevole rigonfiamento continuo (torus) che forma due archi in corrispondenza delle orbite. La faccia è prognata, con grandi orbite rotonde; il mento è spesso assente. Le ossa dello scheletro sono in generale più robuste di quelle dell’Homo sapiens, ma nel caso degli arti è evidente come l’avambraccio e la parte inferiore della gamba fossero relativamente corti. La statura media è pari a 166 cm. La taglia piuttosto piccola, l’ossatura robusta e le estremità corte testimoniano l’adattamento a un clima freddo.
La vita quotidiana dell’Homo sapiens neanderthalensis
Il termine Musteriano, derivato dalla località omonima di Le Moustier in Dordogna (Francia), designa l’insieme delle industrie del Paleolitico medio. Le industrie litiche musteriane rappresentano lo sviluppo di quelle già note durante il Paleolitico inferiore rispetto alle quali però documentano le seguenti caratteristiche di innovazione tecnologica:
perfezionamento della tecnica di scheggiatura levalloisiana;
perfezionamento della tecnica di lavorazione dei bifacciali;
differenziazione e standardizzazione degli strumenti su scheggia, in particolare modo delle punte e dei raschiatoi;
incremento degli strumenti ricavati da supporti laminari.
La grande quantità di resti ossei di animali, presente nei depositi del Paleolitico medio, prova l’importanza fondamentale della caccia quale attività di sostentamento dell’uomo di Neanderthal. Durante i periodi con un clima più temperato, la composizione dei mammiferi cacciati riflette la varietà degli ambienti circostanti le località dove erano posti gli accampamenti. Gli studi dei resti ossei degli animali rivelano la presenza di specie diverse, tra le quali grandi pachidermi, equidi e cervidi; le prede cacciate dai Musteriani erano quindi in prevalenza erbivori. In condizioni di maggiore rigidità climatica, che si verifica soprattutto nel Würm II, la caccia tende a specializzarsi fino al punto di spingere alcuni gruppi musteriani a basare la loro economia e la loro cultura materiale sullo sfruttamento intensivo di una sola specie. Tale adattamento a particolari condizioni ambientali è ben documentato sia nel caso dei gruppi di cacciatori penetrati nelle regioni montane dell’Europa centrale e specializzatisi prevalentemente nella caccia all’orso delle caverne sia nel caso delle comunità musteriane delle regioni steppiche dell’Europa orientale dove la specializzazione della caccia si era orientata esclusivamente verso il mammut. I metodi di caccia dei musteriani sono attualmente difficili da ricostruire. Si può ipotizzare che i cacciatori del Paleolitico medio praticassero sistematicamente la caccia collettiva, utilizzando come arma da getto, una lancia dotata di punta di pietra. Erano sicuramente impiegate nella caccia ad animali con comportamento gregario anche trappole costituite da rilievi naturali, quali dirupi e crepacci; gli animali di grande taglia invece venivano catturati spingendoli in terreni paludosi dove, dopo averli abbattuti, erano macellati. Per alcune regioni, quale la Francia meridionale, è stata prospettata l’esistenza di territori di caccia definiti, entro i quali i Musteriani si spostavano ciclicamente da un abitato principale corrispondente al campo base ad altri secondari, usati come accampamenti temporanei frequentati stagionalmente. In regioni più ricche di risorse, il modo di vita potrebbe essere stato più sedentario.
Pochissimi sono i dati che si riferiscono al ruolo della raccolta dei vegetali, della raccolta dei molluschi e della pesca. L’alimentazione, a quanto si può affermare sulla base dei risultati degli studi sull’usura dentaria, era prevalentemente carnea. In alcuni siti costieri sono stati raccolti anche molluschi marini, ma solo per ricavarne degli strumenti. Gli abitati dell’uomo di Neanderthal sono di vario tipo; anche se, rispetto al Paleolitico inferiore, quelli in grotta o sotto ripari rocciosi risultano più numerosi. Le cavità vennero probabilmente frequentate durante la stagione fredda, e i rigori della glaciazione würmiana giustificherebbero, almeno in parte, tale mutamento di abitudini. Queste sedi attestano spesso la presenza di strutture abitative diversificate con aree delimitate da blocchi di pietra con focolari al centro che dovrebbero costituire ciò che rimane delle capanne addossate alle pareti delle grotte e  dei ripari. Nelle pianure dell’Europa centro-orientale sono frequenti invece gli accampamenti all’aperto con strutture abitative costituite da cumuli di ossa di mammut con andamento circolare che dovevano assicurare al suolo una probabile copertura di pelli. L’approvvigionamento delle materie prime necessarie alla produzione degli strumenti litici avveniva di solito entro un raggio di 10-20 chilometri dagli accampamenti residenziali. Aree dove si lavorava la pietra (officine litiche) sono note sia nei pressi delle strutture abitative sia isolate, in prossimità degli affioramenti di selce.
Assieme alla selce alcuni gruppi musteriani hanno prodotto degli strumenti dalle materie dure animali: schegge appuntite d’osso sono state lavorate in modo da ricavare dei punteruoli; in altri casi i margini di schegge d’osso sono stati ritoccati, con metodi simili a quelli usati nella lavorazione della selce, ottenendone raschiatoi. In alcuni siti costieri della penisola italiana, come nelle caverne dei Balzi Rossi in Liguria, nella Grotta dei Moscerini nel Lazio e nelle grotte del Cavallo, di Uluzzo, Bernardini e di Serra Cicora nel Salento in Puglia, è attestata la presenza di raschiatoi ricavati dalle valve di conchiglie di Callista chiome.
Sepolture, cannibalismo ed astrazione dell’uomo di Neanderthal Nel Paleolitico medio compaiono le prime testimonianze di riti funerari. Il culto dei morti da parte dell’Homo neanderthalensis è, infatti, ben documentato da un numero discreto di sepolture distribuite nell’Europa meridionale, nel Vicino e Medio Oriente; in particolare, sepolture intenzionali di individui di Neanderthal sono state messe in luce in grotte della Francia, dell’Iraq e della Palestina. Le sepolture sono prevalentemente in fossa, sotto tumulo o in anfratti della parete della grotta; il corpo veniva deposto sul dorso o su un fianco con gli arti inferiori più o meno flessi. In alcuni casi la presenza di ossa di animali trovate presso lo scheletro umano sono state interpretate come un’offerta funeraria. Di particolare importanza, quale testimonianza dell’attenzione riservata ai defunti dall’uomo di Neanderthal, è la sepoltura di nove scheletri, sette adulti e due bambini, rinvenuti nella Grotta di Shanidar in Iraq. In un caso un individuo maschile di 30-45 anni, deposto in posizione flessa entro un circolo di pietre, era disteso, in base a quanto rilevato dall’analisi dei pollini fossili, su un letto di fiori con i quali era stato anche ricoperto. Relativamente al culto dei morti, oltre alle sepolture intenzionali, sono stati riconosciuti anche rituali particolari, quale l’usanza di conservare parti dello scheletro dei defunti. L’esempio classico è quello della Grotta Guattari a S. Felice Circeo nel Lazio. In un anfratto interno di questa grotta fu scoperto, al centro di un cerchio di pietre, il cranio di un neanderthaliano che presentava il foro occipitale allargato e rivolto verso l’alto. L’allargamento del forame, praticato per estrarne il cervello, è stato considerato la prova di un atto intenzionale di cannibalismo rituale. La recente riconsiderazione dei dati ha sollevato molti dubbi su questa interpretazione e ha prospettato l’ipotesi secondo la quale il cranio sarebbe stato introdotto nella grotta da carnivori che la frequentavano come tana. La disarticolazione e scarnificazione delle ossa umane e l’estrazione del midollo osseo, attestate ad esempio a Krapina in Croazia e nella Grotta dell’Hortus in Francia, proverebbero invece che una forma di cannibalismo era praticata da parte dell’uomo di Neanderthal.
Il rinvenimento di resti di orsi sepolti sotto tumuli, in ciste litiche o in fosse ricoperte da lastre hanno portato alcuni studiosi a ipotizzare un vero e proprio culto dell’orso praticato dai Musteriani. Tali interpretazioni vanno però assunte con cautela, anche se è innegabile che questo animale abbia assunto in determinate regioni dell’Europa un ruolo di un certo rilievo nella sussistenza e nella cultura materiale dei neanderthaliani. Senza voler postulare quindi una vera e propria religione dell’orso sembra evidente che questo plantigrado dovesse ricevere una certa importanza anche nella cultura spirituale dei Musteriani, specialmente nelle aree dove la caccia a questo animale era più intensa. Prove archeologiche di comportamenti simbolici o attestanti una certa astrazione sono il rinvenimento in strati riferibili all’ultima fase del Musteriano di sostanze coloranti o di oggetti tinti con ocra, di fossili e minerali raccolti al di fuori dell’accampamento e di ossa incise con motivi geometrici (linee parallele, zig-zag). Si deve infine segnalare il rinvenimento nella Grotta di Divje Babe I in Slovenia di un frammento di femore di orso delle caverne con tre fori artificiali che lo scopritore interpreta come flauto. Se questo oggetto è una forma di flauto primordiale ciò prova che l’uomo di Neanderthal era in grado di concepire e creare dei suoni musicali e tale ipotesi proverebbe che l’invenzione della musica è molto più antica di quanto si pensi.
Il Paleolitico superiore viene comunemente collegato alla diffusione dell’Homo sapiens sapiens.
Il problema della reale determinazione del limite tra Paleolitico medio e superiore interessa la comparsa di gruppi umani con caratteristiche fisiche simili a quelle dell’uomo attuale. La discussione è centrata su due tesi opposte: quella di un’origine africana recente dell’Homo sapiens sapiens che mediante una migrazione verso nord-est avrebbe popolato il resto del Vecchio Mondo (modello della sostituzione) e quella di un’origine antica attraverso una lenta evoluzione dalle forme precedenti in Africa, in Asia e in Europa (modello multiregionale). La collocazione cronologica e geografica dei resti più antichi di uomo moderno sembra dare più credito alla prima tesi. I risultati di una recente analisi genetica condotta su 147 popolazioni attuali confermerebbero il modello della sostituzione. 133 popolazioni di questo campione presentano infatti tipi di DNA mitondriale derivati per mutazioni successive da un unico ceppo, che varie considerazioni ritengono africano. La comparsa di questo comune progenitore di un uomo geneticamente moderno, che potremmo identificare con una ipotetica Eva africana, poiché il DNA mitocondriale si trasmette lungo la linea femminile, è collocata tra 290.000 e 140.000 anni fa nelle regioni dell’Africa centro-meridionali. La sua prima migrazione fuori dai territori africani sarebbe quindi avvenuta tra 180.000 e 90.000 anni fa, in tale modo i dati che attribuiscono circa 100.000 anni ai più antichi reperti di Homo sapiens sapiens della Palestina e meno di 40.000 anni a quelli più antichi europei confermerebbero quanto ottenuto dai risultati della ricerca genetica. Resta da stabilire dove e quando l’uomo moderno abbia sviluppato l’insieme dei comportamenti che lo differenziano da quelli dell’uomo di Neanderthal. In Europa, parallelamente all’estinzione dei Neanderthaliani e alla comparsa dei primi uomini moderni, si realizza il passaggio dal Paleolitico medio al Paleolitico superiore, caratterizzato da mutamenti comportamentali che interessano il modo di vita, le strutture abitative, l’economia, l’organizzazione sociale e la spiritualità. I due fenomeni, biologico e culturale sono in stretta connessione: il Musteriano, inteso come l’insieme dei complessi del Paleolitico medio, è espressione dell’uomo di Neanderthal; l’Aurignaziano, primo complesso del Paleolitico superiore, è la prima evidente testimonianza dell’Homo sapiens sapiens.
Le più recenti scoperte hanno tuttavia dimostrato che i complessi più arcaici dell’Europa occidentale tradizionalmente attribuiti all’inizio del Paleolitico superiore, quali il Castelperroniano in Francia e nella Spagna nord-occidentale e l’Uluzziano nell’Italia centro-meridionale, appaiono in continuità con gli ultimi aspetti del Musteriano riferibili ancora a gruppi di Neanderthaliani di cui rappresentano le ultime manifestazioni culturali. In Europa il passaggio dal Musteriano all’Aurignaziano è sempre brusco nelle regioni in cui questo primo complesso del Paleolitico superiore compare precocemente; in aree marginali invece si interpongono i cosiddetti complessi di transizione, quali il Castelperroniano e l’Uluzziano. Le più antiche datazioni di località dell’Europa meridionale con presenze aurignaziane sono attestate nella Penisola balcanica (39.000-35.000 anni fa), nell’Italia settentrionale, in Veneto e Liguria (38.000-35.000 anni fa), in Spagna nella Catalogna attorno a 39.000-38.000 anni da oggi e in Francia nella Dordogna tra 34.000-33.000 anni fa. Sembra che l’uomo moderno sia comparso in un momento precoce nelle regioni meridionali dell’Europa e da qui si sia poi diffuso verso le regioni centrali e verso i territori dell’Europa occidentale-atlantica.
Le caratteristiche fisiche dell’Homo sapiens sapiens.
Come è stato indicato in precedenza, il periodo glaciale di Würm è caratterizzato da due stadi freddi separati da una lunga fase più temperata (che si protrae tra 50.000 e 25.000 anni fa), durante la prima parte del quale l’uomo di Neanderthal scomparve dall’Europa e fu sostituito dall’uomo moderno. I rapporti cronologici e genetici tra queste due sottospecie non sono ancora chiari, ma la maggior parte degli studiosi ritiene che i neanderthaliani rappresentino una forma troppo specializzata per dare origine in poche migliaia di anni all’uomo moderno. L’Homo sapiens sapiens potrebbe pertanto essere comparso in Europa per migrazione da territori diversi del Vicino Oriente. Il nuovo tipo umano si diffonde in tutti i continenti, anche in Australia e nelle Americhe; rispetto alle forme precedenti si differenzia per il cranio alto, l’assenza del toro sopraorbitario, la fronte diritta, la faccia piatta, il mento prominente, l’occipitale arrotondato, la statura più alta e una diversa proporzione tra gli arti. Come prototipo di questo nuovo tipo umano è stato considerato l’individuo "anziano", di circa 50 anni d’età, rinvenuto nel 1868 nel riparo di Cro-Magnon in Dordogna (Francia), che ha dato il nome ai resti più antichi di Homo sapiens sapiens.
Le innovazioni comportamentali dell’uomo moderno investono tutte le sfere della sua attività quotidiana e spirituale. Tali comportamenti, che solo in pochi casi erano già attestati nell’uomo di Neanderthal, sembrano avere origine dalle nuove e più complesse facoltà cerebrali dell’Homo sapiens sapiens, che consentirono lo sviluppo del linguaggio articolato e di capacità simboliche e cognitive. Con l’uomo moderno il processo di encefalizzazione giunge al suo culmine e il nostro cervello raggiunge un volume compreso in media tra 1.500 e 1.600 cc. Si tratta di un organo dalle dimensioni notevoli in relazione alle dimensioni corporee complessive e che necessita di un apporto energetico altrettanto ragguardevole. L’ampliamento delle capacità intellettive non dipende naturalmente solo dal volume metrico del cervello, ma anche dai suoi processi di riorganizzazione interna. L’espansione del volume inoltre non è uniforme, ma interessa alcune aree particolari come ad esempio quella destinata alle capacità associative e linguistiche. La particolare architettura cranica dell’Homo sapiens arcaico e dell’Homo sapiens moderno può aver consentito lo sviluppo della parte frontale del cervello destinata all’elaborazione di tali capacità.
Una volta che il linguaggio e le capacità cognitive simboliche sono entrate a fare parte dell’universo umano ne deriva una conseguenza di portata incalcolabile: la possibilità di trasmissione per via non genetica del patrimonio di conoscenze, di capacità tecniche, di modi di vita e di sapere rituale da una generazione all’altra. Tale trasmissione non biologica delle capacità acquisite risulta così il punto di partenza dell’evoluzione culturale. Nessun mutamento di carattere biologico ed anatomico ci differenzia dall’Homo sapiens sapiens di 40.000-35.000 anni fa. È superfluo sottolineare quanto comportamenti, modi di organizzazione sociale e abitudini di vita si siano succeduti e modificati nell’arco di tempo che ci divide dalle fasi più antiche del Paleolitico superiore e come queste modificazioni siano la conseguenza dell’evoluzione culturale che ha segnato la nostra storia, ma che potrà subire anche dei nuovi cambiamenti nel corso del suo sviluppo futuro.
Ambiente e territorio durante il Paleolitico superiore nell’Italia.
Durante la glaciazione di Würm, in conseguenza della regressione marina, la configurazione del territorio era ben diversa dall’attuale, e la possibilità di contatti e di scambi tra la penisola italiana e parte di quella balcanica era ben maggiori.
Nell’Interpleniglaciale, fase calda dell’era glaciale che si estende tra 50.000 e 25.000 anni dal presente, le aree interessate dalla presenza dei ghiacciai erano un po’ più estese delle attuali, poiché nelle regioni montuose il limite delle nevi perenni era un centinaio di metri più basso di quello odierno. Le linee di costa si trovavano circa venti metri più in basso di quelle attuali. Il clima era generalmente freddo e arido, con dei momenti moderatamente più temperati e umidi. II Pleniglaciale würmiano, tra 25.000 e 15.000 anni da oggi, segna un generale irrigidimento climatico che culminerà verso 20.000 anni fa con l’acme glaciale in cui i ghiacciai continentali dell’Europa settentrionale e i ghiacciai alpini raggiungeranno la massima espansione. La ritenzione di un’enorme massa d’acqua (regressione marina) determina un abbassamento generale dei mari di circa 120 metri al di sotto del livello odierno. A conseguenza di ciò, tutto l’Alto Adriatico emerse e la Pianura Padana si estese fino alle Alpi Giulie, al Carso, alle pendici dei rilievi istriani e alle Alpi Dinariche. A nord di questa grande pianura, la cui linea di costa più meridionale si estendeva tra Ancora e Zara, le Prealpi Venete, le Alpi Dolomitiche e Carniche e le Caravanche in Slovenia furono intensamente ricoperte dalle masse nevose perenni, mentre le Alpi Giulie e Dinariche, caratterizzate da rilievi meno elevati, non costituirono una barriera naturale tra le regioni balcaniche e quelle mediterranee. Nel Pleniglaciale il clima, generalmente freddo e con tendenza a divenire sempre più continentale (con temperature medie estremamente rigide nel mese di gennaio e relativamente alte in luglio) e arido determina, attorno alle aree glacializzate, la formazione di un paesaggio di tundra e più a sud di steppe fredde e di steppe arborate. Nelle aree più lontane dalle masse dei ghiacciai prevale una foresta di conifere, mentre la foresta mista è confinata in ristrette aree di rifugio. Le influenze continentali-balcaniche dovettero essere particolarmente marcate nelle regioni alto adriatiche della penisola italiana come è confermato dalla presenza di mammiferi, quali il mammut, il bisonte e la lepre fischiante. Il ritiro definitivo delle masse glaciali dalle regioni dell’Europa settentrionale in relazione a un lento, ma progressivo innalzamento della temperatura, segna l’inizio del Tardiglaciale würmiano. Durante il Tardiglaciale, che interessa un arco cronologico compreso tra 15.000 e 10.000 anni dal presente, vengono distinte delle fasi a clima freddo e arido intervallate da momenti temperato-umidi, nel corso dei quali la vegetazione, gli animali e quindi anche l’uomo si diffondono nuovamente in territori in cui in precedenza era impossibile accedere, come ad esempio nell’ambiente montano.
La vita quotidiana durante il Paleolitico superiore
Durante il Paleolitico superiore l’economia è ancora fortemente incentrata sulla caccia. La differenziazione ambientale che si verifica durante il II Pleniglaciale, tra 50.000 e 25.000 anni fa, determina una diversificazione dei modi di sostentamento dei gruppi di cacciatori-raccoglitori in relazione alle diverse risorse disponibili. Nell’Europa occidentale la renna diviene la preda dominante, mentre nelle regioni mediterranee la composizione della fauna appare varia e differenziata in base alle specifiche caratteristiche ambientali. Nella fase finale dell’Epigravettiano i mutamenti climatici determinati dalla fine dell’era glaciale consentirono la diffusione del bosco fino a quote prossime a quelle attuali. Tali nuove condizioni ambientali permisero alle bande di cacciatori che vivevano in pianura e nella fascia prealpina dell’Italia settentrionale di spingersi alla ricerca delle loro prede fino a quote sempre più elevate. Gli spostamenti avvenivano su base stagionale, passando dai campi invernali situati in grotte e ripari delle Prealpi o nelle grandi valli alpine, la Valle dell’Adige ad esempio, a insediamenti estivi situati nella media montagna, tra 1.000 e 1.600 metri di quota. Questi accampamenti estivi, posti all’aperto o sotto piccoli ripari di grandi massi, vicino a laghetti e pozze d’acqua, servivano alla caccia a cervi e stambecchi che migravano stagionalmente in senso altitudinale verso le praterie poste al di sopra del limite del bosco. Le tecniche di caccia nella fase più antica del Paleolitico superiore erano probabilmente analoghe a quelle del Paleolitico medio; le armi più comunemente usate erano ancora lance, munite ora anche di punte di osso o di avorio. Nella fase più evoluta alle zagaglie si associano gli arpioni, utilizzati anche nelle attività di pesca. Durante questo periodo si perfezionano inoltre i sistemi di immanicatura delle armi da getto e si sviluppa la pratica, che verrà ampiamente adottata nel Mesolitico, di fissare elementi litici di piccole dimensioni in serie (armature) su un’asta di legno o di osso usata come arma da getto. Il Paleolitico superiore vede anche l’invenzione di un congegno atto a scagliare le lance con maggiore efficacia e potenza: questo nuovo strumento è il propulsore. Non è invece accertato l’uso dell’arco, anche se alcune rappresentazioni artistiche ne potrebbero suggerire la comparsa. La raccolta e la pesca sono documentati nel territorio europeo fin dalla fase più antica del Paleolitico superiore, in particolare nelle regioni mediterranee, dove la raccolta di molluschi marini si intensifica nell’Epigravettiano finale, come è attestato dai cumuli di conchiglie (chiocciolai) presenti in numerose località situate in prossimità delle coste. Durante il Paleolitico superiore l’insediamento tipo è prevalentemente in grotta o in ripari sotto roccia; nell’Europa centro-orientale sono invece noti numerosi accampamenti all’aperto. Nell‘ambito degli accampamenti ve ne sono alcuni più semplici con una o due abitazioni, ed altri più complessi, con una notevole quantità di strutture. Questi abitati sono costituiti tende o capanne, sia seminterrate sia al livello del suolo, a pianta circolare od ovale. La presenza di aree specifiche destinate alla lavorazione della selce o di altre rocce dure all’interno degli abitati suggerisce una divisione del lavoro, determinata dall’abilità di alcuni individui del gruppo nella fabbricazione di particolari strumenti litici. Anche la realizzazione delle grandi opere d’arte parietale potrebbe essere attribuita ad artigiani specializzati mantenuti da ampie collettività. Pare probabile che persone addette a pratiche di culto o a pratiche magiche, con funzioni simili a quelle degli sciamani, godessero di una posizione privilegiata nella comunità. L’indicazione della mobilità dei gruppi di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore può essere determinata, oltre che dai territori sfruttati stagionalmente durante le battute di caccia, anche dal rinvenimento di particolari materie prime usate nella fabbricazione degli utensili, da conchiglie fossili o marine impiegate come ornamenti e da altri reperti di varia natura provenienti da località situate a grande distanza dagli accampamenti. Queste presenze, che alle volte provano distanze anche di centinaia di chilometri, possono essere state il risultato di lunghe migrazioni o di contatti occasionali tra gruppi diversi, almeno nella fase più antica del Paleolitico superiore. La continuità di approvvigionamento di una determinata materia prima, durante un momento più avanzato del Paleolitico superiore, prova invece l’esistenza di scambi realizzati attraverso contatti sistematici tra gruppi diversi o spedizioni ripetute alla località di estrazione o di raccolta.
Le pratiche funerarie
Le testimonianze di sepolture del Paleolitico superiore sono molto più abbondanti di quelle del Paleolitico medio. Esse mostrano una notevole varietà di riti, una più complessa struttura delle sepolture e certa è la funzione di corredo degli oggetti associati ai defunti. I cadaveri sono stati deposti in fosse appositamente scavate, più o meno profonde, in posizione allungata (supina), fortemente rattratta o leggermente ripiegata. La maggior parte delle sepolture presentano un corredo, costituito prevalentemente da strumenti litici, generalmente di pregevole fattura, da manufatti in osso e corno, quali bastoni forati e zagaglie, da oggetti ornamentali, quali conchiglie forate, denti di animali anch’essi con foro di sospensione, vaghi in pietra e in osso, vertebre di piccoli mammiferi e di pesci. Tali oggetti potevano formare collane, bracciali, cavigliere, copricapi e talvolta associati in vario modo ornavano le vesti. Frequente è l’uso di ocra rossa, con cui veniva cosparso il fondo della fossa o il corpo dell’inumato. In qualche caso venivano collocati dei blocchi o lastre di pietra in corrispondenza della testa o di altre parti del corpo. La maggior parte delle sepolture del Paleolitico superiore sono ritrovamenti isolati, in rari casi si tratta di sepolture bisome di due individui, mentre nella parte finale di questo periodo il rinvenimento di numerose sepolture concentrate in un’area riservata specificamente ad esse, suggeriscono l’esistenza di vere e proprie necropoli. In questo senso possono essere interpretati alcuni rinvenimenti fatti in Italia in depositi attribuibili all’Epigravettiano finale, come ad esempio le quindici sepolture delle Arene Candide in Liguria, le quattro sepolture della grotta del Romito in Calabria e le cinque sepolture della Grotta di San Teodoro in Sicilia.

Cenni di geologia
Il carsismo da: www.geologia.com
Il termine carsismo deriva da Carso, una regione geografica situata al confine tra Italia ed Ex Jugoslavia. Da diverso tempo la parola carso, in tedesco si dice karst termine che è diventato di uso internazionale, sta ad indicare un particolare paesaggio dove affiorano rocce di composizione calcarea o gessosa, costituite cioè da elementi molto solubili dall'acqua (come le anidriti, le dolomie le arenarie calcaree ecc..). In questo ambiente abbiamo una scarsa vegetazione, estesi affioramenti di roccia, e un drenaggio superficiale (cioè uno scorrimento superficiale dell'acqua) assente o poco sviluppato e la presenza di numerose depressioni e cavità sotterranee (grotte). Questo fenomeno che potenzialmente interessa tutte le rocce si manifesta quasi esclusivamente sulle rocce a solubilità maggiore ovvero le rocce carbonatiche (Calcari e Dolomie) e quelle evaporitiche (Gessi e Salgemma), ma considerando che queste sono circa il 15% delle terre emerse il fenomeno del carsismo è ben diffuso sul pianeta. La maggior parte dei fenomeni carsici conosciuti, sia di superficie che di sottosuolo è dovuta all'azione delle acque di origine meteorica (la pioggia), ma importanti sono anche quei fenomeni legati alla presenza di acque di mare in prossimità della linea di costa, oppure là dove si ha la risalita di acque profonde che vengono in contatto con acque di origine meteorica in corrispondenza di importanti faglie. Il carsismo da acque meteoriche è quello definito "classico" in quanto è quello che più facilmente si manifesta sulla superficie terrestre. Un'altra caratteristica importante che favorisce questo fenomeno è lo stato di fratturazione della roccia in questione; maggiori sono le fratture maggiore sarà il volume di roccia interessato. Come abbiamo detto le rocce che maggiormente sono interessate da questo fenomeno sono le rocce carbonatiche che sono costituite principalmente da calcite e dolomite. Per entrambe la solubilità in acqua pura e a temperatura ambiente (poiché la temperatura influenza la solubilità) è molto bassa, dell'ordine di 10-20 mg/l, ma questa aumenta notevolmente quando nell'acqua vi sono sciolte altre sostanze, in particolare acidi. L'acido più comunemente disciolto è quello carbonico proveniente dalla CO2 di origine atmosferica o biologica più acqua secondo la reazione:

(CO2) + (H2O) = (HCO3-) + (H+)
Il processo di scoglimento della calcite e dolomite in acqua con CO2 (che prende il nome di corrosione) è il seguente:
 

CALCITE CaCO3 + CO2 + H2O = (Ca2+) + (2HCO3-)

DOLOMITE CaMg(CO3)2 + 2CO2 + 2H2O = (Ca2+) + (Mg2+) + (4HCO3 2-)

In presenza di CO2 la solubilità della calcite è di circa 100 mg/l (alla temperatura di 25° ed una pressione parziale di CO2 di 10-3 bar), di poco inferiore è la solubilità della dolomite che è di 90 mg/l, alle stesse condizioni. Quello che li differenzia è la velocità con cui questo processo ha luogo che è nettamente inferiore per la dolomite. Senza entrare nei dettagli si può dire che la solubilità delle rocce carbonatiche è tanto maggiore quanta più CO2 è presente nelle acque circolanti. L'acqua piovana ha in genere tenori di CO2 piuttosto bassi, nei suoli invece, a causa delle attività biologiche, si riscontrano tenori di CO2 piuttosto elevati (fino al 10%) e le acque attraversandoli, possono arricchirsi sino a livelli di qualche punto percentuale (una concentrazione così alta permette di scogliere mezzo grammo di calcare per litro). Se possiamo trascurare la temperatura nella solubilità di calcite e dolomite, non possiamo fare altrettanto per la solubilità della CO2 nell'acqua; questa infatti diminuisce notevolmente con l'aumentare della temperatura e questo fa sì che le acque fredde siano di fatto più aggressive nei confronti del calcare rispetto a quelle calde, anche se la minor velocità con cui questa reazione avviene attenua in parte questo effetto. Nella pratica le acque di provenienza meteorica, arricchite di CO2, hanno poteri corrosivi non molto diversi sia in climi freddi che in climi caldi, tanto che il contenuto in carbonati (quello discolto e trasportato dalle acque in soluzione) delle sorgenti carsiche è sostanzialmente analogo sia all'equatore che alle alte latitudini. Il maggior sviluppo dei fenomeni carsici che si riscontra nei paesi tropicali è dunque dovuto alla maggiore quantità di precipitazioni, non tanto al maggior potere corrosivo delle acque.
Oltre all'acido carbonico, le acque che danno origine al carsismo contengono spesso altri acidi in soluzione che possono essere di origine organica, oppure da emanazioni vulcaniche (come l'acido solfidrico H2S), ma il principale rimane quello carbonico. All'origine quindi dei fenomeni carsici vi è la circolazione dell'acqua nel sottosuolo. Uno dei maggiori problemi che in passato assillava i ricercatori, che studiavano la chimica dei processi carsici, era quello di spiegare l'esistenza di condotti carsici a grande profondità anche molto lontano dalle zone di ingresso delle acque circolanti.
Il processo di scoglimento del calcare in acqua è infatti piuttosto rapido e quindi l'acqua dovrebbe raggiungere la saturazione dopo pochi metri di percorso sotterraneo soprattutto per le acque che si muovono, con moto lentissimo, nelle fessure dalle dimensioni sub-millimetriche, durante le prime fasi di sviluppo dei fenomeni carsici sotterranei. A dare una risposta a questo interrogativo è stato Boegli che nel 1963 propose il meccanismo della "corrosione per miscelazione". Il processo è molto semplice: due acque, contenenti quantità diverse di calcare in soluzione, quando si mescolano tra loro acquistano una percentuale in calcare sempre minore della soglia di precipitazione. Comunque questa non è la sola spiegazione per questi fenomeni che talvolta sono di dimensioni enormi; ve ne sono altre come il fatto che la presenza di altre specie chimiche nell'acqua aumenti la solubilità del carbonato di calcio (per un aumento di forza ionica). È ormai opinione comune comunque che le situazioni in cui si ha il massimo sviluppo di forme carsiche siano quelle in cui vengano in contatto acque con un diverso chimismo (cioè degli elementi chimici che sono sciolti in esse). Gli effetti più vistosi dei processi carsici si hanno sull'aspetto superficiale del terreno, nel quale, in zone ben "carsificabili", si ha una infiltrazione di acqua nel terreno pari al 50% di quella piovuta, e in certe situazioni si arriva al 90%. Tutto questo fa si che l'acqua non scorra sulla superficie (ruscellamento superficiale) e quindi il risultato è che il principale agente modellatore del paesaggio terrestre (l'erosione ad opera dell'acqua) sia fortemente ridotto. Questo spiega la presenza di forme che raccolgono l'acqua che possono essere di dimensioni molto variabili: da qualche centimetro al metro, chiamati karren o campi carreggiati. Poi vi sono altre forme che convogliano l'acqua nel sottosuolo, solitamente di dimensioni maggiori come gli inghiottitoi o le doline (cavità di forma circolare con uno o più punti di assorbimento idrico); queste cavità possono assumere varie forme da quella a pozzo, a imbuto, a scodella e altre. Possiamo avere i polje che sono dei bacini chiusi di dimensioni chilometriche con versanti ripidi e fondo appiattito ad opera del carsismo; le valli cieche in cui vi è un corso d'acqua che poi improvvisamente viene inghiottito da una cavità e si perde nel sottosuolo. Un'altra forma molto comune è la gola carsica: una profonda incisione con fianchi ripidi, dovuta al fatto che l'azione erosiva viene compiuta principalmente sul fondo.
Nel sottosuolo invece si formano una serie di cunicoli, grotte, gallerie (a volte di notevoli dimensioni, ne è stata misurata una galleria di 32 metri di diametro), e pozzi che in parte si uniscono a formare una ragnatela tridimensionale, ma in genere si allargano di più quelle che seguono la massima pendenza del versante in cui il movimento, la velocità e la quantità di acqua che vi transita è maggiore. Questi sistemi carsici sotterranei possono raggiungere uno sviluppo di centinaia di chilometri, come il complesso della Mammoth Cave negli Stati Uniti che supera i 250 Km, tra gli abissi più profondi vi è quello di Pierre St. Martin, nei Pirenei francesi profondo 1230 metri, tra le grotte vi è quella nelle "grotte di Carlsbad", Stati Uniti, che misura 400 m X 230 m X 200 m, la "grotta Gigante, nelle vicinanze di Trieste, è lunga 200 m, larga 130 metri e alta 136 metri.
All'interno di questi sistemi, in cavità non più attive, può accadere che vi siano occasionali punti in cui il calcare invece di essere sciolto si deposita dando vita a fenomeni come le stalagmiti e stalattiti nelle grotte.
Trasporto sedimentario
Molte delle rocce sedimentarie presenti sulla crosta terrestre derivano dalla deposizione di sedimenti che, precedentemente alla loro stessa deposizione, sono stati per molto tempo trasportati e sballottati dalle più diverse azioni erosive.
Esistono moltissime modalità di trasporto dei sedimenti: il trasporto ad opera dei corsi d'acqua, il trasporto eolico, il trasporto delle correnti marine e delle maree, il trasporto ad opera dei ghiacciai, il trasporto gassoso (anche le zone di accumulo dei movimenti franosi rientrano in questo tipo di sedimentazione). Il tipo di trasporto che comunque più degli altri ha contribuito alla formazione di grandi corpi sedimentari è quello che avviene ad opera dell'acqua. In tutti i casi la deposizione delle particelle solide avviene allorchè il mezzo trasportante rallenta il suo movimento a tal punto da non essere più in grado di sostenere anche il movimento dei sedimenti in esso contenuti (a maggior ragione se si arresta del tutto). Questi infatti, per gravità, abbandonano il mezzo che li aveva fin li trasportati e si accumulano l'uno sopra l'altro sul fondo del fiume o del bacino.
E' importante fare adesso una precisazione: i processi di trasporto si dividono essenzialmente in due tipi: quello in cui il mezzo trasportante e i sedimenti sono l'uno indipendente dall'altro, come ad esempio il trasporto operato dai fiumi o dalle correnti marine, e quello in cui il solido e il fluido hanno un comportamento d'insieme come se si trattasse di unico corpo, come ad esempio le frane di fango, le colate o le correnti di torbida. In quest'ultimo caso si parla di trasporto di massa contrapposto all'altro chiamato particellare. Il trasporto particellare è chiamato anche anche selettivo in quanto il mezzo che fornisce movimento erode e trasporta solo determinate particelle e cioè solo quelle che la sua forza trattiva riesce a smuovere. L'azione selettiva si ripercuote poi nell'organizzazione geometrica del sedimento finale creando strutture sempre molto ordinate.
La coltivazione della vite e il vino degli antichi.

Secondo la Genesi, Noè fu uno dei primi viticoltori, Questa miniatura del Quindicesimo secolo racconta lo sbarco degli animali fino a quando pianta la sua prima vigna: “avendo bevuto il vino si inebriò e giacque scoperto nella sua tenda.

Da: http://www.vinisannio.com/rubriche/lastoria.htm
Vitis
Famiglia vitaceae , genere vitis, specie vitis vinifera.
Le prime vitacee compaiono sul nostro pianeta nell'era mesozoica (140 milioni di anni fa), ma solo nel terziario (65 milioni di anni fa) la vite acquista la forma di una liana. Alcuni reperti fossili ritrovati sia in Italia che in altre nazioni europee testimoniano l'esistenza della vite nel periodo terziario e quaternario. Dopo che i continenti cominciarono ad assumere l'attuale forma e l'uomo fece la sua comparsa sulla terra, cominciò a cibarsi oltre che di cacciagione anche delle piccole bacche prodotte dalla vite selvatica (vitis silvestris). Solo nel neolitico (6000 anni a.C.) nella zona della Mesopotamia, sembra che gli Arii o i Semiti, primi abitanti della zona, abbiano iniziato la coltivazione e la vinificazione dalla vite coltivata e potata (vitis vinifera). Nella zona del monte Arafat, sono stati rinvenuti depositi di feccia all'interno di giare adibite alla conservazione del vino, risalenti al 4000 anni a.C. Anche nelle tombe dei faraoni egiziani sono state rinvenute testimonianze sulla vite e sulle tecniche di vinificazione.

Dall'isola greca di Eubea, i coloni greci che sbarcarono in Campania nell'VIII secolo a.C. iniziarono la coltivazione della vite con introduzione di tecniche di potatura razionale, con riduzione della produzione per pianta, e scegliendo terreni collinari in zone ben esposte e ventilate. Ma già nelle zone appenniniche interne i popoli italici, SANNITI e IRPINI, cominciavano ad adottare sistemi di allevamento locali. Sicuramente gli antenati dei Sanniti non erano completamente astemi; il territorio sannita fu ricco di vita fin dalla preistoria, come testimonia la palafitta rinvenuta a Castelvenere (Benevento) negli scavi del 1898, poggiante su 99 pali, disposti su quattro fila, infissi nel terreno ed il ritrovamento, nella campagna di scavi del 1908, di residui di ossa di muflone, di bue selvatico e nuclei e punte silicee, oltre ad oleari e cocci spettanti all'arte greca, di epoca romana e sannitica. Tutto questo ci fa supporre che i territori del Sannio già erano pieni di vita fin dalla preistoria.
Da: http://www.globwine.com/
Quindi Novemila anni fa il vino era già presente in qualche modo; forse non si trattava di vino nel termine moderno della parola, ma sicuramente, in quelle remote epoche, si produceva una bevanda fermentata ed inebriante. Questa affermazione non è dettata da sole deduzioni logiche; essa è basata su sicure e precise testimonianze emerse dalla notte dei secoli. 6000 anni fa l’uomo aveva già costruito dei depositi di notevoli dimensioni, dove si poteva meglio conservare il vino per lunghi periodi. Gli archeologi, hanno scoperto resti di depositi che avevano contenuto, senza dubbio alcuno, uve pregiate e fermentate. La zona più attiva della produzione delle uve, e conseguentemente del vino, coincise, per molti secoli, con il mondo civile dell’epoca: quello corrispondente, per grandi linee, ai paesi del Mediterraneo e nell’Asia Minore, alle rive del Mar Nero, dal Mar Caspio, alla Mesopotamia, all’Armenia, fino alla Persia ed alle pendici dell’Himalaya. Alla più antica di tutte le lingue indoeuropee poi, il sanscrito, dobbiamo l’origine della parola vino, dalla voce "vena". Infatti i grandi libri della letteratura sanscrita trattano di bevande fermentate a base di uva. E di vino, sempre in questa accezione, si occupano, per motivi etici e di costume nelle loro prescrizioni religiose, Confucio e Budda. Per quanto riguarda particolarmente la Cina, che si pone molto più ad Oriente della zona indicata come centro della produzione e di irradiamento in tutto il mondo, pur non avendo sicure notizie sull’esistenza del vino in quelle regioni, sono da sempre tuttavia note leggende remote di millenni che trattano di un liquido fermentato dalle uve.

Per gli abitanti della Giorgia la vite vinifera aveva un significato simbolico, se non addirittura sacro, almeno cinquemila anni fa, piccoli tralci di vite erano montati in manicotti d’argento, e sepolti nelle tombe, forse perché il morto potesse piantarli nell’aldilà.

Forse furono i Greci a portare la coltivazione della vite nella nostra penisola. La viticoltura in Italia appare verso il 730-720 a.C. nelle colonie della Magna Grecia: nel bacino dell'Egeo non c'era più alcuna terra libera e parecchi Greci migrarono verso le coste del Mar Nero fino alla Crimea, ma anche verso la Sicilia e l'Italia meridionale, che erano scarsamente popolate. E' da lì che la coltivazione della vite si estenderà all'Italia centrale. Mentre pare proprio che fu un etrusco ad esportare la viticoltura per primo in Gallia (e quindi in Francia). Nell'Italia settentrionale i tralci delle viti, a differenza della tradizione greca, erano però sorretti da alberi e non da "sostegni morti": tipici inoltre per la potature lunga. Fino all'VII secolo a.C. vino ed olio deposti nelle principesche tombe del Lazio e dell'Etruria, provenivano da zone di oltremare: dall'Attica, dall'Eubea, da Corinto e dalla Fenicia. Nel 650 a.C., con la produzione di anfore etrusche da trasporto, vino ed olio divengono invece beni di largo consumo e di commercio. Romolo nel periodo dei re (con Roma che era di fatto colonia dell'etrusca Veio ed etruschi erano i suoi monarchi) dà esempio di moderazione rifiutandosi, durante una cerimonia, di bere più di una coppa di vino. Questo significa che quel bene era ancora scarso e prezioso. E così era anche ai tempi della civiltà micenea in Grecia: il vino veniva considerato un bene di lusso e in alcune tavolette compare per lo più tra gli elenchi di offerte alla divinità o tra i donativi di scambi diplomatici. Numa Pompilio, re di Roma, vieterà invece alle donne di bere durante le libagioni funebri. E' il segno che il nettare di Bacco era già prodotto in maggiore quantità e berlo era oramai un uso diffuso anche tra le donne. Nel V secolo arriverà poi la prima legge sul vino, con il divieto di lasciare le viti "non tagliate" (non potate) e disposizioni ancora più aspre per le donne.

da: http://www.comune.prato.it/associa/carmignano/degusta/vino/htm/curios.htm

 I GRECI E IL VINO. Ci racconta Omero che i Greci bevevano vino, simbolo di indiscusso prestigio sociale, a colazione, a pranzo e a cena. Tre erano infatti i pasti nell'arco della giornata: l'ariston, il deiphon e il dorpon. Le viti non si coltivavano però a pergola, ma erano lasciate scorrere sul suolo evitando, con rami e stuoie, il contatto diretto delle ciocche con il terreno. Sempre secondo Omero era a metà settembre che gli uomini e le donne greche si dedicavano alla vendemmia; e dopo aver riempito di uva le conche di legno d'acacia o in muratura, procedevano alla pigiatura. La fermentazione avveniva in grandi vasi di terracotta cosparsi all'esterno di resina e pece e profondamente interrati, per limitare i danni provocati dalla traspirazione. La filtrazione ed il travaso seguivano dopo sei mesi ed il vino era versato in anfore di terracotta o in otri. Secondo Esiodo, invece, la vendemmia avveniva all'inizio di ottobre e l'uva, prima di essere pigiata, veniva esposta al sole per aumentarne la componente zuccherina e diminuirne l'umidità.

I Greci rievocarono le figure leggendarie delle menadi e dei satiri, seguaci di Bacco, con gusto e piacere. Questa anfora del 540 a.C. fu decorata da Amasi di Atene, e mostra una scena di Satiri impegnati nella vendemmia. Un satiro raccoglie l’uva, un altro la pigia in un tino dal quale il mosto cola direttamente in un recipiente interrato nel quale avverrà la fermentazione, altri tre si occupano della cantina.
La poesia antica di tutto il Mediterraneo, cantando le gesta di eroi e condottieri, ha spesso citato il vino. L'Iliade di Omero lo ricorda, oltre che nei giuramenti, in occasione di banchetti, riti funebri e naturalmente durante le cerimonie religiose: famoso è il passo dedicato ai funerali di Patroclo. L'epiteto "ricco di grappoli" accompagnava la descrizione di parecchie regioni. Ed una vigna, con sostegno "morto", compare nella descrizione dello scudo di Achille forgiato da Efesto, secondo quello che ci racconta di nuovo Omero.

IL SIMPOSIO. Bere vino per i Greci era anche un rito collettivo, sensibili come erano alla dimensione comunitaria del vivere. L'occasione per farlo era il simposio, organizzato di solito per un matrimonio, per una festa familiare o per una ricorrenza religiosa. Gli invitati, almeno fino al IV secolo, dovevano essere rigorosamente tra tre e nove, che era poi il numero delle Grazie e delle Muse: assente la donna. Il padrone di casa assegnava i posti agli invitati a seconda dell'importanza - la disposizione doveva essere tale in modo che tutti potessero vedersi e parlarsi - mentre del servizio si occupavano alcuni giovani che miscelavano il vino con l'acqua, lo attingevano e lo versavano. Consumato il pasto, come ci racconta anche Platone (che al simposio ha dedicato uno dei suoi dialoghi), una coppa di vino non annacquato veniva passata in cerchio perché ogni commensale potesse berne un sorso e brindare. Scrive il filosofo nel Convito: "… Socrate si sedette e quando ebbe finito di mangiare insieme ad altri fece libagioni. Poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti e si misero a bere". A questo "brindisi" ne seguivano altri, secondo un rituale che prevedeva il lavaggio delle mani e l'utilizzo di profumi e corone di fiori sul capo, di mirto o di edera (pianta sacra a Dioniso, con cui si adornavano anche le coppe). Del vino, versato fuori dalle coppe, era offerto anche a Zeus Olimpio, agli "spiriti degli eroi" e a Zeus Salvatore. Bere significava circondarsi di un'atmosfera magica: il vino era esso stesso divinità. E chi brindava assieme creava una comunità, anche se in epoca romana questo elemento rituale e sacrale tenderà progressivamente a diventare sempre più sfumato. E il banchetto si trasformerà in un evento borghese.

IL VINO DEGLI ANTICHI, IL RUOLO DELLE DONNE. Il vino degli antichi era comunque molto più simile ad uno sciroppo di uva, sia pur a volte liquoroso, che a quello che noi oggi beviamo. Non a caso veniva sempre servito con acqua, che doveva essere prevalente. Bere il solo vino, oltre al rischio di potersi ubriacare, era visto come un'usanza barbara o sacrilega. E al vino talvolta si aggiungevano miele e resine, che lo rendevano più stabile e più adatto alla conservazione e al trasporto. Così faranno anche gli Etruschi, che al vino nei simposi e nei banchetti accompagnavano frutta, noci, mandorle, pasticcini, formaggi, miele ed altri stuzzichini. Tra i Greci e tra i Romani la donna non veniva ammessa alla mensa del marito e a Roma la suocera aveva il diritto di sentire se l'alito della nuora sapeva di vino. La donna che consumava vino veniva assimilata ad una adultera: solo nell'età imperiale le fu concesso di bere il vinum passum, cioè il vino passito, e in genere i vini dolci. La donna etrusca, invece, era sempre presente ai banchetti, sdraiata sul triclinio assieme al marito.

IL VINO DEI ROMANI. Nei primi anni dell'impero romano la vite era ormai ampiamente diffusa e coltivata in Italia, tanto che nel 90 d.C. Domiziano dovette imporre ai contadini della penisola, con un editto, di sradicare metà delle vigne e vietare nuovi impianti per far fronte ad una preoccupante crisi da sovrapproduzione. I primi vini romani erano comunque piuttosto grossolani: quelli più nobili venivano ancora importati dalla Grecia. Il vino che bevevano i romani era inoltre molto diverso da quello che oggi orna le nostre tavole. Andavano infatti matti per il vino lungamente invecchiato, come in genere in tutta l'antichità. Il Falerno non si poteva bere prima dei 10 anni e rimaneva ottimo fino a 30; i vini di Sorrento erano buoni soltanto dopo 25 anni. Per invecchiare i vini si usavano anfore, aiutandosi con fumo, calore e rudimentali sistemi di pastorizzazione. I vini che bevevano dovevano quindi essere densi, amari, eccessivamente alcolici e quasi sempre stravecchi: l'annacquamento, con acqua calda o fredda ma anche neve, era essenziale, mentre il vino puro (il merum) era riservato agli dei. A seconda delle qualità ad una parte di vino si potevano aggiungere anche tre parti di acqua. I Romani usavano moltissimo, inoltre, i "tagli" tra vini diversi: un dolce vino greco di Chio, ad esempio, per mitigare l'asprezza del Falerno. La bevanda comunque preferita rimaneva il mulsum, una miscela di miele e vino con cui si aprivano i sontuosi banchetti delle grandi famiglie patrizie.

Da: http://www.rccr.cremona.it/ais/vinro.htm
Già all'epoca dell'antica Roma, produttori e commercianti ricorrevano alle sofisticazioni e di ciò ne parlano gli antichi autori latini come Orazio, Catone, Plinio. Spesso si aggiungeva al vino cenere, sale, scaglie di ostriche tritate e persino acqua di mare. Questi "additivi" dovevano avere lo scopo di garantire la conservazione. Marziale parla di un mercante che al vino (grossolano) di Sorrento, mescolava gli avanzi di vini pregiati di Palermo, ottenendo così un prodotto di qualità discutibile ma di sicuro guadagno. Stando ancora a quanto gli storici ci riferiscono sulle consuetudini degli antichi, ci è dato sapere che essi preferivano bere il vino freddo. In genere i vini che si servivano nei pranzi, venivano sottoposti ad una filtrazione, usando un panno di lino in cui si poneva della neve, rendendoli freschi ma anche indebolendoli e falsandone quindi il sapore originale. Ovidio diceva a questo proposito: "Vino lina vitiata" attribuendo così al lino, la capacità di modificare in peggio la qualità della bevanda. A proposito di filtrazione Plinio parla di Saccus Vinarius, un sacco appunto che veniva usato per colare il vino, ossia per purgarlo dalle fecce o per addolcirlo. Quest'ultima tecnica si può dire che ha anticipato i tempi in cui per preparare i così detti mosti muti, si è fatto ricorso all'uso di un filtro di stoffa molto fitta, per impedire il passaggio dei fermenti ottenendo così un vino piuttosto dolce, per una ridotta trasformazione in alcool degli zuccheri presenti nel mosto. Altra espressione usata da Plinio era "Saccis vina castrare", per indicare l'operazione capace di temperare la forza del vino, colandolo sempre attraverso un sacco.
Si usava poi mischiare il vino, profumato con i vari ingredienti come erbe e bacche, anche con acqua calda perché più salubre e si otteneva una bevanda che si conservava in vasi circondati da carboni accesi o da recipienti di acqua bollente. Plinio elenca più di duecento bevande a base di vino che i Romani conoscevano e accenna ad una specie di birra ottenuta facendo fermentare il grano nell'acqua e si faceva meraviglia come dall'acqua stessa si potessero ottenere gli effetti del vino. Dai primi tempi di Roma sino al XVII secolo, sono stati in uso i così detti "vini misti" che contenevano essenze derivate da piante come il rosmarino, il finocchio, l'anice, l'assenzio, la salvia, l'issopo ed altre.
Tra questi antichi vini profumati, si ricorda, ad esempio, il Claret preparato con miele, chiodi di garofano, cannella, zenzero e cardamomo chiamato questo anche Granum Paradisi. Già Plinio riferisce che nei primi tempi dell'Impero Romano, per la preparazione dei vini profumati, "Vina odora condida", venivano usate non solo piante ricche di aromi particolari, ma addirittura la velenosa mandragora. Nei banchetti romani veniva dato il compito ad una persona fidata di preparare, poco prima di dare inizio ai banchetti stessi, la miscela di acqua e di vino: questo personaggio era chiamato il "pocillator" mescitore o coppiere, definito anche "arbiter bibendi" che stabiliva le proporzioni anche se, in genere, si era soliti mischiare tre parti di acqua e una di vino e talvolta erano addirittura nove le parti di acqua da aggiungere. Marziale nei suoi Epigrammi però dice: "Vin puro per metà mesci / come facea Pitagora a Nerona".
Un vino che richiedeva una diluizione molto forte citato anche da Plinio, era il Maroneo perché evidentemente molto alcoolico. Di solito, verso la fine del convivio se ne portava di più annacquato, poiché i commensali, evidentemente ormai saturi, non erano più in grado di distinguerne pregi o difetti. A questo proposito va ricordato l'episodio delle nozze di Cana in cui Gesù Cristo, sollecitato da sua Madre Maria, compì il miracolo di trasformare l'acqua in ottimo vino, suscitando non poco stupore tra gli invitati, abituati a vedersi servire, sul finir del pranzo, quello peggiore.
I cibi degli antichi
Gli Etruschi come gli Egizi, decoravano le loro tombe con immagini di interminabili banchetti, a cui speravano di partecipare nell’aldilà, questo affresco di Tarquinia illustra una scena della loro vita sociale e rappresenta uomini che banchettano semisdraiati mentre le donne sono rispettosamente sedute al loro fianco.

I greci ritenevano che il momento del pasto fosse occasione di nutrimento non solo del corpo, ma anche dello spirito. La loro moderazione, però non impedì loro di inoltrarsi nel campo delle sperimentazioni e delle novità. cominciarono a mescolare diverse sostanze e cibi, cercando di compensare sapori più forti. I greci introdussero l'uso dell'olio e dell'aceto, ritenuto curativo. Per attenuare o esaltare i sapori usavano aromi e miele, mentre facevano capolino alcune spezie, provenienti dal Medio Oriente e dall'Africa. tra i cereali spiccava l'uso dell'orzo, quasi sempre bollito, ma con il passare del tempo la coltivazione del frumento portò alla produzione del pane a pasta lievitata. Agli inizi della civiltà di Roma la cucina degli antichi romani era certamente frugale. Non bisogna dimenticare che la civiltà romana si sviluppò da un piccolo villaggio di agricoltori. Furono i contatti con la Magna Grecia a far iniziare l'evoluzione di nuove coltivazioni e quindi di nuove preparazioni. All'inizio erano soprattutto polente a base di cereali, primi tra tutti l'orzo, il miglio, e poi il farro, la base dell'alimentazione. Il sale era usato pochissimo perchè bene assai prezioso e costoso e a volte il cereale veniva fatto bollire nell'acqua di mare. La carne era poca, soprattutto di maiale e si preparava nei giorni di festa. Le polente potevano essere arricchite con formaggi, miele oppure uova. Progressivamente, con le conquiste e la possibilità di conoscere nuovi prodotti dell'agricoltura, nuove spezie e nuove abitudini alimentari, la cucina romana si trasformò con un'abbondanza di ingredienti e preparazioni da far tremare i dietologi. Dietologi veri e propri tra i Romani non esistevano, ma ben presto ci si rese conto che gli eccessi alimentari erano fonte di un gran numero di malattie. Così, accanto ai primi trattati di gastronomia, nacquero alcuni rudimentali trattati di dietetica, i cui principi rimasero in voga fino al Medioevo. Ed erano ben giustificati, se si pensa che i banchetti del periodo imperiale potevano annoverare fino a cento e più portate. Due le caratteristiche principali nelle preparazioni dei Romani: l'introduzione delle salse, che avevano il compito di "coprire" il gusto dei cibi mal conservati, ma che in seguito divennero elementi distintivi delle ricette, e la cottura dei pesci che venivano, infatti, bolliti prima di essere fritti o arrostiti. Lentamente il pane sostituì le polente di cereali. Dal pane alla pasticceria, anche se primitiva, il passo fu breve: bastò aggiungere miele, uvetta e noci e nocciole. Quali erano i cibi più ricercati tra gli antichi? Come ai giorni nostri, era la scarsità a decretare il successo di un particolare alimento. Così anche tra i Greci e i Romani i tartufi e i funghi erano prelibatezza riservata ai ricchi. Alcune verdure, come gli asparagi o i fichi, erano oggetto di alcune leggi speciali. I Romani impararono le tecniche della conservazione delle carni e della produzione dei salumi, che poichè erano lavorati con il sale e le spezie, beni preziosi, erano una vera prelibatezza. Ostriche e aragoste erano i più apprezzati tra i prodotti ittici. A proposito di salse, una squisitezza che compare in tutti i trattati di cucina era il garum o liquamen. Era un condimento ricavato da interiora di pesce impastate con sale e con erbe odorose.

Mosaico a Pompei. Sembra che le vie di Roma fossero piene di bar e ristori aperti sulle strade, dove si potevano ordinare cibi caldi al banco ed a tutte le ore. In questi locali si serviva vino solitamente allungato con acqua, mentre nella stagione invernale l’annacquatura era servita calda.
TABERNAE e ALTRI LUOGHI di RISTORO
Ai romani era gradito mescolarsi alla folla delle strade, delle piazze e dei luoghi di spettacolo per partecipare a tutte le manifestazioni attive della vita sociale nella città. La vita di una città romana, non era poi molto diversa da quella di oggi: da una parte vi era il quadro animato delle strade e delle piazze con tutti gli incidenti della circolazione, con gli acrobati e gli artisti ambulanti che presentavano i loro numeri sulle piazze. Dall'altra, accanto a un incessante brusio, vi erano i rumori dei martelli dei fabbri, e gli odori disgustosi di fumo e di grasso. Ma esistevano anche oasi di tranquillità. C'erano i giardini romani, le piazze, i portici, le gallerie e le sale di riunione. Tutti ovviamente avevano bisogno di mangiare e di bere. I Romani, dato che cominciavano la loro attività digiuni, rientravano a casa per il mezzogiorno oppure andavano nelle tabernae o dai venditori ambulanti per acquistare cibi e bevande. La taberna all'inizio era solo un buio deposito di legno ed era in generale la bottega degli artigiani, aperta alla strada; si trovava al pianterreno o nel seminterrato della casa. A volte era addirittura incassata nel muro. Si passò poi dalle tabernae vinarie alle tabernae per eccellenza, che si specializzarono nella vendita del vino e nella consumazione sul posto. La parola taberna cominciò ad indicare così il luogo in cui si beveva e si mangiava. Le tabernae avevano un bancone di pietra, con cinque o sei contenitori incastrati, rivolto verso la strada; altri contenitori erano messi in mostra per la gente che passava. Accanto al banco vi era un fornello con una casseruola piena di acqua calda. Nel retro c'era la cucina e le sale per la consumazione. Mentre i ricchi si potevano permettere antipasti e dolcetti, che acquistavano o si facevano preparare a casa, i poveri, non avendo la possibilità di cucinare per mancanza di spazio, si recavano nelle tabernae.
I venditori ambulanti, detti lixae, esibivano le loro cibarie su bancarelle smontabili in tavole, protette dalla pioggia per mezzo di tende. La loro attività era controllata, perchè essi vendevano i loro prodotti vicino a luoghi sacri e, per rispetto agli dei, si volevano evitare scene di ebrietà e disordini. Nonostante avessero una cattiva reputazione venivano frequentate anche da persone importanti. Le tabernae erano molto numerose. Oltre a queste vi erano gli hotel, costruiti presso le porte della città, i teatri, i bagni o nelle vicinanze della piazza municipale. All'interno vi erano affreschi che rappresentavano i diversi piatti.
I proprietari dei luoghi di ristoro appartenevano ad una classe inferiore. C'era un grande disprezzo era nei confronti delle donne che facevano da locandiera. In quartieri più distinti, le locande erano situate presso centri religiosi. Ai clerici non era permesso entrare nelle tabernae per mangiare e bere, se non per un'estrema necessità.

Termini adoperati per distinguere i luoghi di ristoro.
Inizialmente la taberna era un oscuro deposito di legno e costituiva la botteguccia degli artigiani; poi la taberna vinaria divenne la taberna per eccellenza e infatti il termine si conserva ancora oggi con lo stesso significato di osteria.
La popina era una trattoria dove il vino veniva portato ai tavoli solo per accompagnare i piatti del pasto.
Più povero della popina, era il gurgustium, che era una specie di bettola.
Simili alle popinae erano le cauponae, o osterie di campagna.
C'erano i tabula, in cui vi era un posto non solo per i viaggiatori, ma anche per i cavalli.
Anche il deversorium aveva la stessa funzione di luogo di sosta con alloggio.
Lungo le strade esistevano poi delle mansiones, o alberghi per la notte.
Tra due mansiones si trovavano delle mutationes, o luoghi per il cambio dei cavalli.
Le mansiones erano dirette da un praepositus (sovrintendente) e da un manceps (imprenditore), che disponevano anche di una polizia stradale.

da: Simona Moretta da http://www.activitaly.it/subura/romaoggi/cucinaromana/antichi_romani_cibo.htm
Di buon’ora, appena sveglio e senza neanche lavarsi le mani, il Romano consuma uno dei due pasti della giornata, una colazione sostanziosa a base di pane e formaggio, frutta e carne. Si tratta spesso degli avanzi della cena del giorno prima, che gli invitati ad un banchetto possono portarsi a casa in un cestino. Sbrigati i primi affari, si dedica al prandium, lo spuntino della tarda mattinata, sobrio e veloce. L’evento culinario della giornata si svolge invece al pomeriggio, quando il Romano abbiente, dopo il consueto bagno alle terme, e quindi verso le tre o le quattro del pomeriggio, si siede comodamente a tavola fino al calare del sole. Qui le portate sono numerose, fino a sei, ognuna con una serie svariata di piatti. Nella cena normale dopo l’antipasto - gustatio - seguono le portate principali di carne e pesce e si chiude con le secundae mensae, cioè i dessert. La serata continua con il simposio, in cui alla mescita di vino - sempre annacquato - si accompagna ancora qualche cibo, come i porri, che stimolano la voglia di bere. Una serie di norme di buona educazione e di etichetta regola la cena, anche rispetto alla disposizione dei posti a tavola. Nel triclinio (sala da pranzo), infatti, il padrone di casa fa disporre i letti tricliniari, su cui i convitati si distendono a due o tre, sostenedosi con il braccio sinistro piegato. In tal modo la mano destra è libera di afferrare i cibi dai bassi tavolini accuratamente imbanditi davanti agli ospiti. Il posto d’onore, detto “consolare”, è all’estrema destra del letto centrale, ed è così chiamato dal fatto che un messaggero, entrando dalla porta postagli di fronte, può facilmente trasmettere al convitato ivi disteso una comunicazione importante e urgente. Il padrone di casa si dispone subito a sinistra dell’ospite d’onore. Nelle case più ricche le sale da pranzo sono più d’una, e vengono occupate secondo la stagione dell’anno e l’orientamento : i triclini estivi, spesso seminterrati e contenenti fontanelle e giochi d’acqua, sono orientati a nord, mentre quelli invernali prospettano a ovest, fatto che permette di cogliere gli ultimi raggi di sole della giornata. L’alimentazione romana di epoca arcaica e repubblicana è sobria, a base di legumi, cereali, formaggio e frutta ; con la conquista dell’Oriente, invece, almeno sulle mense ricche, arrivano nuovi ingredienti da tutte le province.Accanto al pane quotidiano, alla puls (sorta di polenta condita), alle grandi quantità di lupini, lenticchie, ceci e soprattutto fave, oltre a lattughe, cavoli e porri, fichi, mele e pere, incominciano ad essere consumati anche cibi di lontana provenienza, come le ciliege, importate per la prima volta dall’Oriente da Lucullo. Il Romano povero, ovviamente, non ha accesso ai cibi importati e costosi e in casa non ha neanche il triclinio. Egli continua la tradizione antica di pasti frugali ed economici. Il Romano ricco, invece, come ci tramandano abbondantemente le fonti, offre frequentemente banchetti, cui partecipano decine di amici e clienti. Qui i cibi sono vari, cucinati con cura ed anche molto elaborati, almeno stando alle ricette del cuoco Apicio, giunte fino a noi. Sono molto apprezzate le uova di anitra, piccione e pernice e molto consumato è il pesce, fresco o in salamoia. Simile ad alcune salse orientali moderne a base di pesce salato e fermentato (come il Nuoc Nam indocinese), è il garum, una delle salse più note dell’antichità, di cui esistono diverse varietà. Ancora più diffuso, però, è sicuramente l’olio d’oliva, importato soprattutto dalla Baetica (odierna Andalusia) e dall’Africa settentrionale, le cui anfore da trasporto hanno formato in Roma, in circa tre secoli, una vera e propria collinetta artificiale : il monte Testaccio (detto “Monte dei cocci”). Si mangia raramente carne bovina, più spesso carne ovina e caprina, e comune è il maiale, del quale si è imparato a sfruttare ogni parte. Il consumo di insaccati è enorme e apprezzata la carne di volatili - da cortile e da voliera - prodotta intensivamente nelle ville rustiche o cacciata, insieme a selvaggina più grande, come cinghiali, daini, cervi e caprioli. Una delle caratteristiche fondamentali della cucina romana è l’accostamento di gusti opposti, del piccante con il dolce, del dolce con l’aromatico. Oggi non troveremmo poi così gradevoli gran parte delle ricette che ci sono pervenute, ad esempio le pere lesse con miele, passito, salsa di pesce, olio e uova, e forse neanche le pietanze a base di gru, fenicotteri, pappagalli e pavoni che ornavano certe tavole molto raffinate.

Da: http://www.vinisannio.com/rubriche/romani.htm
Se ai greci si deve l'impianto dei vitigni progenitori di quelli attuali come l'Aminea gemina (attuale Greco), la Vitis Hellenica (attuale aglianico) e l'Apiana (attuale Fiano) furono i Romani a trasformare la Campania nella regione vinicola per eccellenza. Furono proprio loro ad affiancare all'Aminea, all'Hellenica ed all'Apiana il Cecubo, il Vesuvio (attuale Lacrima Cristi), il Molle Caleno (forse l'attuale Falangina), il Trebulano, il Saberniano (attuale Piedirosso) ed il famosissimo Falernum. Furono i Greci a fornire i recipienti per conservare e governare il vino facendo nascere le prime fabbriche tra cui quella di Saticula (odierna Sant'Agata dei Goti), ma furono i romani a trasportare i vini, via mare, oltre che a Roma nelle vaste provincie dell'Impero. Nelle città romane troviamo le mensae vinariae, (vendite di vino al minuto), le tabernae vinarie (botteghe da vino), i thermopolium (attuale bar) dove i degustatores servivano agli avventori i vari tipi di vini. Una lapide risalente all'impero di Domiziano (300d.C.) riporta il costo del vino: 10 lire al litro per il vino comune da pasto e 30 lire per il Falernum. Ma da scritti antichi risulta che Trimalcione pagò per un Falernum invecchiato 100 anni la somma di circa quattro-cinquemila lire il litro.

Nelle decorazioni e negli affreschi di Pompei l’immagine di bacco appariva soventemente, in questa immagine bacco è raffigurato sulle pendici del Vesuvio, è vestito come un grappolo d’uva.
La cucina
Era un ambiente piccolo, spesso senza finestra, con un forno per il pane e le focacce, un acquaio e una sorta di fornelli in pietra a legna o carbonella. I cibi venivano cotti in pentole di argilla o bronzo.
La tavola
Sala di Nettuno
La sala da pranzo era chiamata "triclinio", il locale più bello della casa, decorato e arredato anche sfarzosamente (marmi, mosaici, affreschi, fontane, vasche con pesci, tavoli con intarsi d'argento e fiori).  Nel triclinio si entrava col piede destro e ci si accomodava al proprio posto, un lettino per 3 persone dove mangiare distesi (il popolo mangiava seduto) come i Greci. Gli ospiti si appoggiavano sui cuscini appoggiati su una parte del pavimento leggermente inclinata, che circondava su tre lati un tavolo carico di cibi e di vino. Il cibo poteva essere preso da un piatto di portata o servito da uno schiavo in un piatto personale che si teneva con la mano sinistra, appoggiata; con la destra si portava il cibo alla bocca in piccole quantità, attenti a non sporcarsi. A fine cena, ci si puliva i denti con lo stuzzicadenti ("pinna"), che poteva essere d'argento.

La conservazione dei cibi
Dato il clima mite e, nei mesi estivi, caldo di Roma, il problema della conservazione dei cibi era quotidiano. Le soluzioni erano diverse:
- affumicare, di solito usato per i formaggi;
- deidratare, diffuso su molte cibarie, specie carni;
- spalmare miele, per la frutta fresca;
- metter sotto sale, dopo che Tiberio costruì le "salinae".
La Cucina della Antica Roma era famosa per il suo largo impiego di spezie. Leggendo alcune ricette si può avere l'impressione che il cibo così elaborato perda completamente il sapore originario per l'abuso di condimenti.
Emblematica risulta la noncuranza degli antichi trattati di cucina, che riportano quasi sempre solo le liste degli ingredienti, omettendo le loro dosi. Evidentemente, a quei tempi, l'arte del cuoco era fondata sulla sua capacità di ricercare autonomamente il giusto dosaggio tra gli ingredienti.Caratteristica di questi antichi cibi è quella di mescolare spesso il dolce con il salato.
Ciò risulta meno strano di quanto si creda. Non è un caso che nella cucina italiana moderna, rinomata in tutto il mondo, si aggiunga un pizzico di sale nell'impasto di alcune torte zuccherate, oppure si migliori il sapore dei ragù con un po' di zucchero, si condiscano carni e cacciagione con confetture di frutta, si serva salato un frutto dolce come il pomodoro, preparando, nel contempo, insalate di arance con olio e pepe.
Cucinando tali pietanze, dosando sapientemente le varie componenti citate, si possono riscoprire sapori antichi, particolari, studiatissimi e prelibati.
Il vino dei romani.
Questa bevanda aveva soprattutto un carattere sacro - carattere che si è conservato nella religione cristiana.
Gli uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent’anni ed era proibito alle donne;esisteva infatti una prova, chiamata “ius osculi” (diritto del bacio), che permetteva al marito di dare un bacio alla moglie sulla bocca per vedere se aveva rispettato questa regola.
1 Romani conoscevano il vino rosso, che però chiamavano nero, e il vino bianco, ma non quello secco. I vini erano pesanti, acidi e amari.
Il vino era bevuto in coppe molto larghe e quasi piatte.
Esso si beveva anche se non era buono e veniva usato come condimento.
Era conservato fino a 15 anni e più era vecchio più era costoso.
Altri tipi di vino erano quelli mielati - con il miele - e quelli pepati.

I Romani in cucina
L’arte culinaria.
Ogni cittadino romano ricco possedeva una cucina vera e propria e aveva al suo servizio almeno due o tre schiavi capeggiati dai migliori cuochi, che gli preparavano i pasti. Per le grandi occasioni venivano addirittura messi a disposizione dei cuochi con tutta la loro squadra di cucina; insieme a loro si potevano anche affittare suonatori di flauto, artisti e acrobati. Il cuoco spesso faceva suoi i gusti del padrone per soddisfare al meglio i suoi desideri in cucina. Dei cibi venivano osservate prima di tutto le virtù dietetiche e medicinali. La culla della gastronomia europea è stata la Sicilia, punto d’incontro di varie influenze.
Nella cucina romana fondamentali erano i condimenti, che venivano usati per la maggior parte dei cibi. Nel corso della preparazione si pensa addirittura che i cibi perdessero il loro sapore originale per la cottura (la carne veniva cotta almeno due volte: la prima nel latte e la seconda o con le verdure o arrostita) e per i condimenti eccessivi; nelle ricette non compaiono mai i dosaggi. Le spezie indispensabili in cucina erano: lo zafferano, il pepe, lo zenzero, ecc. Il sale veniva adoperato sia per la conservazione sia per usi dietetici, ad esempio per allontanare la peste o il raffreddore o per la digestione. I Romani traevano molti condimenti dall’aceto; per legare le salse usavano la fecola e, non conoscendo lo zucchero, utilizzavano il miele come dolcificante. I Romani condivano il cibo con lo strutto (grasso di maiale) e con l’olio.
Essi avevano la tendenza a mescolare il dolce con il salato. Nei vari impasti si mescolavano la carne di pollo, di porco e il pesce con gli uccelli selvatici. L’uovo era molto usato. Molto comune era una focaccia salata alle erbe e al formaggio, chiamata moretum. A conclusione del pasto c’era frutta e qualche stuzzichino. Nei condimenti facevano sempre la loro comparsa il miele e il garum, un condimento quest’ultimo fatto con scarti di pesce conservati col sale; il garum veniva usato anche quando il cibo era dolce. I brodi di verdura facevano bene al ventre, perciò la loro preparazione era considerata a metà strada tra la medicina e l’arte culinaria. Ad esempio, il brodo di cavolo, mescolato alla farina d’orzo, era considerato molto efficace per curare piaghe ed ulcere. Anche a quel tempo si facevano tisane, ma esse non erano decotti di foglie e di fiori, bensì una specie di crema intermedia tra la minestra e una salsa vera e propria. I cuochi romani erano bravissimi nell’imitare, in quanto sapevano far credere a chi mangiava i loro piatti di stare mangiando pesce al posto di anatra: ad esempio Nicodemo, il re di Britannia, una sera aveva desiderato acciughe pur trovandosi a grande distanza dal mare; il suo cuoco gliene servì un’imitazione consistente in una rapa tagliata a lunghe fettine bollite con olio, sale e semi di papavero. Il cibo era però diverso a seconda della classe sociale di appartenenza. Gli schiavi mangiavano cibo che non variava molto durante l’anno; era sempre costituito da grano, che variava da 4 moggi d’inverno a 4 moggi e mezzo d’estate. Esso veniva chiamato triticum. Agli schiavi spettava una razione giornaliera di vino non molto buono. Agli schiavi incatenati e ai soldati romani venivano distribuiti o 1 kg e 300 g di pane al giorno o fichi e 262 litri di vino all’anno; a tale nutrimento si aggiungevano bulbi di piante, cipolle, rape ed altre radici, leguminose e verdure fresche a seconda della stagione. Anche i contadini allo stato libero avevano lo stesso nutrimento degli schiavi

Area delle tecniche

LO SCAVO ARCHEOLOGICO
Da: http://www.comune.fe.it/gruppo_archeologico/archeodic.htm

L'unico modo per verificare la realtà di un sito è esaminare direttamente ciò che rimane oggi scavandolo. Lo scavo offre dati molto chiari riguardo a due tipi di informazioni:
1) Le attività umane in un particolare periodo del passato
2) Il mutare di queste attività da un periodo all'altro
Lo scavo che da sempre affascina per la sua realizzazione sul campo curiosi e appassionati del "mondo archeologico" è in realtà una delle ultime fasi di una indagine archeologica compiuta su un dato sito.
Solitamente si usano metodi di ricognizione sul sito, compiuti senza ledere il territorio indagato con la fotografia aerea o sonde per il suolo.  Lo scavo al contrario di quanto si possa credere è una pratica costosa e soprattutto distruttiva, proprio per questo si preferisce usare metodi non distruttivi quando è possibile. Esistono diverse modalità di scavo che comunque devono sempre tenere presente le domande che si pone la ricerca riguardo ad un determinato sito da indagare.
Le tecniche di scavo si possono dividere in:

1) tecniche che privilegiano la dimensione verticale (con dimensione verticale si intendono tutti i cambiamenti delle attività umane su un sito avvenute nel tempo) aprendo una serie di tagli in depositi profondi per rilevarne la stratificazione.

2) tecniche che focalizzano l'attenzione sulla dimensione orizzontale (con dimensione orizzontale si intendono i fatti che si svolgono contemporaneamente e che si collocano orizzontalmente nello spazio) esponendo grandi superfici di un dato strato allo scopo di evidenziare le relazioni spaziali tra manufatti ed elementi presenti.

La maggior parte degli archeologi moderni usano una combinazione di entrambe le strategie di scavo sopra elencate, questo perché in archeologia nessun metodo risulta essere di per sé stesso completamente esaustivo, necessita sempre di apporti provenienti da nuove tecniche e da discipline affini.
Un concetto chiave in archeologia e in particolare nella pratica dello scavo è la stratigrafia. Essa parte dall'osservazione dei processi di stratificazione dove gli strati si dispongono li uni sugli altri secondo un processo che continua tuttora.
Quando uno strato ne sovrasta un altro quello inferiore è stato deposto prima dell'altro, il profilo verticale di uno scavo che presenta una serie di strati, costituisce una sequenza che è andata accumulandosi con il passare del tempo.

SISTEMA DI SCAVO PER QUADRATI DI WHEELER: tale complesso sistema fu sviluppato da Mortimer Wheeler un archeologo della fine dell'800. Lo scavo soddisfa le necessità di analisi sia orizzontale che verticale conservando intatta una serie di riquadri di terreno non scavati detti testimoni tra i quadrati scavati. Una volta accertata l'estensione complessiva del sito alcuni testimoni possono essere rimossi riunendo così i quadrati in un'unica superficie in modo da esporre nella loro integrità gli elementi stratigrafici. Tale metodo però presentava lo svantaggio che spesso i testimoni venivano a trovarsi nel posto sbagliato.
SISTEMA DI SCAVO PER GRANDI AREE: questo sistema di scavo nasce in opposizione a quello di Wheeler, prevede l'apertura di grandi aree di scavo, tralasciando l'uso dei testimoni, creando sezioni verticali dove è necessario chiarire le relazioni stratigrafiche.
L'introduzione dei computer portatili rende attuabile nella pratica tale metodo.

Questo metodo risulta utile nei depositi che risalgono ad un unico periodo e che giacciono in prossimità della superficie.

Otre a questi metodi di scavo ne esistono altri quali ad esempio: scavo per trincee e gradoni o a sistemi di paratie.
Il lavoro dell'archeologo da sempre affascina proprio perché lo si associa sempre all'immagine di uno scavo, in realtà si basa sulla ricognizione del suolo, poiché l'azione di scavo, seppur estremamente affascinante e coinvolgente nella maggior parte dei casi è distruttiva visto che va a sconvolgere un sito con la possibilità di distruggere una situazione originaria che si era conservata nel tempo.
Da: http://www.arche-srl.it/sito_arche/arch_ric_it.html

L'informatica e l'archeologia. Si può affermare abbia di fatto modificato l'output della documentazione grafica e informativa, sia nell'ambito dello scavo che della classificazione dei siti e dei reperti o della successiva musealizzazione.

La digitalizzazione in scala dei dati di scavo avviene mentre si opera sul campo, con il vantaggio considerevole di avere tutta la documentazione informatizzata a scavo appena concluso, permettendo anche la ricostruzione tridimensionale di ogni superficie di scavo. Il risultato finale è una versione completamente digitale di tutti i dati di scavo, stampabili su supporti cartacei e in versioni tematiche (ad esempio piante di fase, a colori, con retini personalizzati, ecc.), ma interamente registrabile su supporti indistruttibili ed altamente affidabili come i cd rom. Possiamo immaginare il sistema anche come una sorta di scavo virtuale-multimediale in cui si ripercorrono, passo dopo passo, tutte le fasi operative, visualizzando stratigrafie, strutture e superfici sia in versione grafica, che in relazione alle schede e ai database. In questo modo si potranno avviare ricerche complesse di analisi spaziali e distributive, su singoli reperti, richiamando le interrogazioni sia dai database (ricerche per codici, testi, parole-chiave o tematismi), oppure selezionando gli elementi grafici di interesse, ad esempio tutte le strutture di una certa fase associate a determinate classi di materiali. Sarà possibile incrociare tutti i tipi di indagine (testo-grafica-numeri-campi, ecc.), visualizzando al computer (e di conseguenza stampando) ogni tipo o classe di informazione.

Sulla base delle tecnologie più innovative il sistema digitalizzato può offrire rilevamenti topografici di elevata precisione effettuati con stazioni laser integrate al personal computer. Possono essere rilevati:
rilevamenti topografici a grande scala su base territoriale (survey) e per il posizionamento topografico di aree di scavo;
rilevamenti sullo scavo di strutture, unità stratigrafiche e distribuzione di materiali;
rilevamenti altimetrici a curve di livello;
elaborazione dei dati altimetrici per la creazione di modelli digitali del terreno in tre dimensioni.
Analisi antropologiche.
Lo studio degli scheletri umani fornisce una serie di interessanti informazioni, riguardanti non solo le caratteristiche antropologiche della popolazione in esame, ma anche il loro stile di vita.
La presenza dell'antropologo sullo scavo limita la perdita di informazioni di cui spesso si è testimoni, a tutto vantaggio della qualità della ricerca. L'integrazione delle informazioni di carattere antropologico con quelle fornite dagli studi archeologici e/o storici, archeozoologici, paleobotanici, ecc., completa e arricchisce la conoscenza della società, dell'economia e dello stile di vita delle popolazioni del passato.
Datazioni.
Gli archeologi hanno avvertito la necessità di riferire i rinvenimenti a uno schema cronologico al fine di poterli studiare sotto una prospettiva temporale, per tale motivo hanno rivolto la loro attenzione a vari metodi di datazione che fornissero un indicazione precisa del momento storico in cui un manufatto è stato prodotto o un evento è accaduto. I metodi di datazione assoluti consentono, con l’ausilio di procedimenti chimici o fisici, di determinare le varie epoche dei manufatti analizzati sia come anni dal presente sia come anni del calendario. I metodi più utilizzati in archeologia sono i seguenti: dendrocronologia, metodo del radiocarbonio, metodo del potassio/argon, metodo dell’uranio/torio, termoluminescenza e paleomagnetismo.
La dendrocronologia è un metodo di datazione biologica che si basa sull’analisi delle sequenze degli anelli di accrescimento degli alberi; esso consente di datare i manufatti lignei (oggetti e strutture) rinvenuti nei siti archeologici. Il metodo di datazione si basa sul principio secondo cui ogni anno gli alberi aggiungono un anello di crescita che registra le minime variazioni del clima e dell’umidità; l’ampiezza dell’anello è relativamente sottile durante le annate asciutte, mentre essa tende a diventare spessa durante le annate umide. Al momento del taglio dell’albero, queste variazioni dei singoli anelli di accrescimento consentono di determinarne l’età. Pertanto alberi della stessa specie e della stessa età cresciuti in aree con condizioni climatiche simili presentano sequenze degli anelli di crescita più o meno simili. Nel caso di alberi più vecchi e più giovani le cui età si sovrappongono è possibile realizzare una cronologia relativa confrontando gli anelli di crescita dello stesso anno. Le età assolute possono essere ottenute sovrapponendo le sequenze degli anelli di crescita sino agli alberi viventi. La sequenza più lunga e più antica ottenuta sino ad ora è quella fornita dal Pinus aristata per l’America occidentale che risale sino a 9.000 anni fa.
Il metodo del radiocarbonio consente di determinare l’età dei materiali organici contenenti carbonio. Il metodo si basa sulla decomposizione radioattiva dell’isotopo 14 contenuto nel campione di azoto, con l’emissione di particelle che ha inizio allorché un organismo muore e cessa di scambiare carbonio 14 (C14) con l’atmosfera. Nel momento in cui una pianta, un animale o un uomo muoiono viene a cessare l’assunzione di C14, la sua concentrazione, prima costante, comincia a diminuire per effetto del decadimento radioattivo. Conoscendo la velocità di decadimento del C14 e misurandone la quantità rimasta nel campione analizzato, si può determinare l’età di un tessuto, di un manufatto ligneo o di animale morto. Le tracce di C14 sono piccolissime già all’inizio e si riducono alla metà dopo 5.730 anni; dopo 23.000 anni, in un campione rimane perciò solo un sedicesimo della già modesta quantità iniziale di C14. La precisione delle datazioni con il metodo del C14 è condizionata da vari errori: influenza delle radiazioni cosmiche, errori di conteggio e da possibili inquinamenti dei campioni. Per tale motivo le date ottenute sono sempre accompagnate da una stima dell’errore probabile (8.050 ± 150 a. C.). Una delle ipotesi fondamentali del metodo C14 è risultata non del tutto corretta: la concentrazione di C14 nell’atmosfera non è infatti rimasta costante nel corso del tempo, ma è mutata in relazione alle variazioni del campo magnetico terrestre, a conseguenza di ciò è necessaria una calibrazione delle date ottenute. La dendrocronologia fornisce il metro di confronto cronologico di riferimento alle datazioni C14. Le date ottenute con il metodo del radiocarbonio dagli anelli di accrescimento degli alberi indicano che prima del 1.000 a. C. circa le date espresse in anni determinati con il C14 risultano progressivamente più recenti rispetto a quelle espresse in veri anni di calendario. Prima del 1.000 a.C., gli alberi e tutti gli altri organismi viventi erano esposti a concentrazioni atmosferiche maggiori di C14 di quelle  a cui sono esposti oggi. L’apporto delle sequenze dendrocronologiche degli anelli di accrescimento del Pinus aristata  e della quercia ha consentito per l’Europa e il Nord America la definizione di curve di calibrazione valide fino al 7.000 a. C. (9.000 anni fa). Le curve consentono agli archeologi di calibrare una data con il radiocarbonio traducendola in anni di calendario.
Il metodo dell’uranio/torio si basa sul processo di decadimento dell’isotopo radioattivo 238 dell’uranio, solubile nell’acqua, dove si combina con il carbonato di calcio. Il decadimento radioattivo determina la trasformazione dell’isotopo 238 dell’uranio nell’isotopo 234 prima e quindi in torio, insolubile in acqua. Gli organismi viventi nelle acque, come conchiglie e coralli, e gli organismi terrestri che assorbono le acque sotterranee al momento della morte sono ricchi di uranio 234 e poveri di torio; da questo momento in poi inizia il decadimento dell’isotopo instabile dell’uranio determinando un accumulo di torio. La misura del rapporto tra la quantità di uranio e torio presente nel campione analizzato consente la sua datazione, giacché il tempo di decadimento è noto. L’arco cronologico che può essere datato con questo metodo va da alcune migliaia d’anni fino a circa 350.000 anni fa.
Il metodo del potassio/argon interessa la datazione delle rocce magmatiche. Esso si basa sul principio che il potassio radioattivo presente al momento del raffreddamento di una roccia magmatica si disintegra producendo argon. La misurazione del rapporto potassio/argon di certi minerali consente quindi di datare il momento del raffreddamento. Con questo metodo è possibile datare rocce eruttive in relazione con depositi antropici, ottenendo così per questi ultimi dei termini ante quem o post quem. Il metodo viene normalmente applicato per periodi più antichi di 100.000 anni da oggi.
La datazione mediante termoluminescenza serve per datare materiali archeologici che hanno subito un trattamento termico. Questo metodo di datazione si basa sul seguente fenomeno: all’interno di un cristallo, al momento della formazione, sono presenti delle cavità elettrostaticamente positive che costituiscono delle trappole per gli elettroni liberi che circolano in esso; gli elettroni occuperanno le cavità esistenti fino a saturarle a meno che non vengano liberati in seguito a riscaldamento. Quando, infatti, il materiale  viene riscaldato o esposto alla luce, gli elettroni intrappolati nelle cavità vengono liberati, rilasciando energia sotto forma di luce, detta termoluminescenza. Il segnale è una misura dell’esposizione alle radiazioni che è stata accumulata; più lunga è stata l’esposizione o più forte è stato il livello di radiazione, maggiore è la termoluminescenza emessa dal campione. Le datazioni fino ad ora più antiche ottenute con il metodo della termoluminescenza riportano a circa 300.000 anni fa.
La datazione archeomagnetica si basa sul paleomagnetismo delle rocce che sono state naturalmente sottoposte a riscaldamento. Il campo magnetico terrestre ha subito nel tempo numerose variazioni di senso, sia quale conseguenza della variazione dell’asse dei poli magnetici sia per effetto della deriva dei continenti. Poiché le rocce vulcaniche durante il raffreddamento risentono l’influenza del campo magnetico terrestre, misurando il magnetismo residuo, esse consentono di individuare il campo magnetico esistente al momento della solidificazione. Il dato ottenuto viene confrontato con una curva cronologica di riferimento del paleomagnetismo terrestre che consente di ricavare l’epoca in cui è avvenuto il riscaldamento.

Vino e fermantazione.

Il vino è una bevanda moderatamente alcolica che spesso accompagna i nostri pasti e che è nota all'uomo da tempi antichissimi, si ricava dall'uva attraverso vari passaggi, che trasformano, il mosto o succo d'uva in una bevanda il cui tenore alcolico dipende dalla quantità di zuccheri presenti nel materiale di partenza. Il processo per cui si forma alcol etilico, (etanolo) dallo zucchero d'uva (fruttosio, glucosio ed in minor misura saccarosio) è detto fermentazione ed è opera di minuscoli organismi presenti sulle bucce dell'uva stessa, che vanno sotto il nome di lieviti o fermenti. Altri processi di trasformazione e maturazione accompagnano le reazioni fermentative, conferendo infine al vino le sue caratteristiche organolettiche finali. L'evoluzione di tali processi ed il risultato finale dipendono dalle componenti iniziali presenti nel mosto e dal lavoro del cantiniere, che tenderà innanzitutto ad evitare quei processi chimici (quali la fermentazione acetica) che possono alterare irreversibilmente il vino; contemporaneamente il lavoro del cantiniere sarà volto a favorire le trasformazioni "favorevoli". Non dimentichiamo che il vino grazie alla presenza di alcol etilico e anidride carbonica, prodotti della fermentazione, è una bevanda autoconservativa e, se prodotto in modo corretto rispettando i tempi fisiologici della maturazione del mosto, non necessita di trattamenti chimici per mantenersi gradevole ed inalterato.

La fermentazione alcolica.
L'insieme di trasformazioni biochimiche grazie alle quali dagli zuccheri d'uva si forma alcol etilico, va sotto il nome di fermentazione. Nel mosto d'uva i fautori della fermentazione alcolica sono i lieviti, microrganismi presenti in grande quantità sulle bucce degli acini. I lieviti (o fermenti) maggiormente rappresentati nel mosto, appartengono al genere Saccharomyces, come quelli che si utilizzano nella panificazione, tanto per essere chiari. Dalla formula chimica si deduce che da glucosio o fruttosio si ottengono, per via fermentativa, alcol etilico e anidride carbonica. I lieviti utilizzano questa via metabolica per la produzione di energia, necessaria al loro sostentamento; in altre parole i lieviti si nutrono di zuccheri ed espellono come rifiuti, l'anidride carbonica e l'alcol etilico. In realtà la prima parte di questa via metabolica, detta glicolisi, è presente anche negli organismi superiori, tra cui l'uomo. la glicolisi (letteralmente: lisi degli zuccheri) trasforma il glucosio (o il fruttosio) in acido piruvico; è questa molecola che va poi incontro alle trasformazioni fermentative vere e proprie, le quali, a seconda dei sistemi enzimatici e regolativi presenti, può essere alcolica o di altro genere: ad esempio nell'uomo, la carenza di ossigeno, quale può verificarsi in un muscolo poco allenato, dà luogo alla fermentazione omolattica con formazione di acido lattico che dà i ben noti dolori da "debito d'ossigeno". Si perché una caratteristica fondamentale della fermentazione è che non richiede ossigeno: la glicolisi viene anche detta la "via anaerobia'; mentre negli organismi superiori le tappe successive alla glicolisi producono energia utilizzando ossigeno (respirazione cellulare). Il lievito, un organismo molto antico, è anaerobio e la fermentazione può avvenire tranquillamente in assenza totale di ossigeno.
Il fatto che la via fermentativa abbia come intermedio l'acido piruvico, fa sì che accanto alla fermentazione alcolica possano avvenire , in diversa misura, altri tipi di trasformazioni con generazione di un gran numero di prodotti secondari, non sempre graditi, dall'acido piruvico stesso (glicerina, acido lattico, acido acetico). Parallelamente all'alcol etilico la fermentazione produce, in ugual proporzione, anidríde carbonica, la quale è presente nel vino sia sotto forma di bollicine gassose, sia come acido carbonico in soluzione. Dopo la pigiatura il processo fermentativo si avvia in modo piuttosto tumultuoso e procede molto velocemente: la quantità di zuccheri presenti nel mosto è molto alta e i lieviti sono estremamente attivi. Dopo questa prima fase, se si vuole produrre vino dolce, occorre eliminare con processi meccanici (centrifugazione e filtrazione) i residui della fermentazione, che tra l'altro contengono lieviti. Se il vino dovrà essere secco si procede con semplici travasi, seguiti solo in un secondo tempo dalle centrifugazioni e filtrazioni. A questo punto la quantità di alcol formatisi, la minor disponibilità di zuccheri e la ínattivazione di gran parte dei fermenti esercitano una inibizione sui processi fermentativi che procedono molto più lentamente. Il vino inizia la sua fase di maturazione, durante la quale si avranno processi di trasformazione che porteranno al prodotto finale; accanto alla fermentazione degli zuccheri residui, si hanno ora le cosiddette fermentazioni superiori che utilizzano aminoacidi la cui degradazione fornisce spesso molecole aromatiche, che contribuiscono al bouquet del vino finito.
Qual'è il destino dell'alcol e dell'anidride carbonica? L'alcol etilico è completamente solubile nel vino, ma in presenza di ossigeno e di determinati ceppi batterici può venire convertito in acqua ed acido acetíco, trasformazione quanto mai sgradita! Qualcuno ha scritto che l'essere vino è uno stato transiente, di una qualcosa destinato prima o poi a divenìre aceto. Nel passato il problema era più consistente, date le scarse condizioni di asetticità dei recipienti di invecchiamento e della procedura di imbottigliamento. Oggi queste difficoltà sono in gran parte superate. Nella nostra zona un aiuto ulteriore ci proviene dal fatto che sì usa consumare il vino frizzante: l'anídride carbonica esercita una azione inibente sui batteri acetogenici e compete favorevolmente con l'ossigeno come gas disciolto nel vino, agendo così come un autentico conservante delle qualità della bevanda. Assolutamente naturale, perché se è vero che la legge non proibisce l'aggiunta di acido carbonico al vino (attenzione però: deve essere indicato sull'etichetta, in modo analogo all'acqua minerale), è anche vero che l'anidride carbonica si forma spontaneamente a fianco dell'alcool, durante la fermentazione. Si tratta solo di imprigionarla e non lasciarla più scappare. Ma vediamo insieme come è stato risolto questo problema, fin dal XVII secolo, e come sia possibile produrre vini frizzanti con metodi del tutto naturali.

EQUAZIONE GENERALE DELLA FERMENTAZIONE ALCOLICA.

 Fruttosio          C6H12O6    =>   etanolo 2 C2H5OH + anidride carbonica 2 CO2

Successivamente si accertò che tale trasformazione biologica avveniva ad opera delle cellule del lievito; o meglio era dovuto ad enzimi prodotti dai lieviti.
Nella fermentazione alcolica il glucosio viene trasformato in alcool etilico e anidride carbonica.
 Il processo della fermentazione alcolica avviene con produzione di energia che fa aumentare notevolmente la temperatura durante la reazione; di conseguenza, un problema di notevole importanza ai fini della produzione industriale è quello di refrigerare i contenitori di fermentazione per abbassare la temperatura a livelli adeguati durante la reazione.
I lieviti hanno una capacità “omofermentante”, cioè essi utilizzano il glucosio producendo solo alcool etilico. Questa loro proprietà viene molto sfruttata industrialmente per vari scopi: per produrre alcool etilico, bevande alcoliche (vino, birra), distillati delle bevande alcoliche (acquaviti, liquori), lievito come massa cellulare per la fermentazione panaria, vitamine del complesso B (di cui il lievito è molto ricco).
FATTORI FISICI CHE INFLUENZANO LA FERMENTAZIONE ALCOLICA.
-Temperatura: la temperatura iniziale si aggira attorno ai 18°C, e a poco a poco raggiunge quella ottimale (20 - 22°C), per una buona azione dei lieviti alcolici. Se la temperatura supera quella ottimale, oppure va al di sotto di quella iniziale, è necessario raffreddare la massa fermentata, oppure riscaldare l’ambiente.

Aerazione della massa: all’inizio della fermentazione, essa favorisce la moltiplicazione dei lieviti.
Ci sono vari metodi di aerazione:
1)     quello più antico, con le follature;
2)     quello più moderno con il rimontaggio, specie quando il mosto viene messo in tini o in vasche molto grandi, consiste nel far cadere a pioggia il mosto in un sottospina, e di qui la pompa lo riversa dall’alto sul cappello delle vinacce; specie quando il mosto viene messo in tini o in vasche molto grandi. Il rimontaggio presenta il grande vantaggio di omogeneizzare la massa fermentante.
-Refrigerazione e condizionamento dei mosti in fermentazione: la refrigerazione rappresenta un aspetto molto importante ed attuale della tecnologia enologica. Interessa particolarmente le zone calde del nostro Mezzogiorno.
Particolare importanza riveste la conoscenza dell’influsso esercitato dalla temperatura sulla crescita e sul metabolismo dei lieviti. La temperatura, a parità di altre condizioni, determina la lunghezza del periodo di latenza e la velocità di crescita del lievito presente nel mosto.
Ben nota è la dipendenza della resa in alcool dalla temperatura di fermentazione. Nella pratica corrente, però, la maggior parte degli autori è concorde nell’indicare in 20 - 22°C (massimo 25°C) il valore ottimale della temperatura per ottenere le migliori rese di alcol.
Il controllo della temperatura quindi è oltremodo necessario nella fermentazione dei mosti al fine di ottenere il maggior grado alcolico e la migliore qualità dei vini.
Il controllo può essere effettuato in maniera abbastanza semplice ed efficiente sia preventivamente, che nel corso della fermentazione, mantenendo ovviamente conto della natura dei vari mosti:
a)     Refrigerazione preventiva: l’entità di questa refrigerazione dipende da due fattori:
-temperatura iniziale del mosto;
-temperatura minima raggiungibile;
b)  Refrigerazione nel corso della fermentazione: il raffreddamento dei mosti   durante la fermentazione ha la funzione specifica di migliorare la qualità del vino ottenibile. Infatti la fermentazione a temperatura controllata agisce sui fermenti determinando nei vini prodotti il vantaggio di un deciso miglioramento dei caratteri organolettici.

-Aggiunta di lieviti: si tratta di un mezzo molto usato e molto efficace per favorire la fermentazione. Spesso si ricorre a fermenti selezionati o semplicemente ad un lievito preparato dallo stesso cantiniere.

-Aggiunta di anidride solforosa: in dosi molto elevate, e cioè oltre 300 g per ettolitro può sterilizzare il mosto ed ostacolare la fermentazione ( mosti muti ). In piccole dosi ( 10-20 g/hl ) può invece favorire la fermentazione. L’anidride solforosa ha anche il potere di operare una selezione di microrganismi, eliminando la concorrenza di quelli nocivi.

Miglioramento nella composizione chimica nel mosto: un mosto troppo zuccherino è meno adatto a compiere una normale fermentazione. Talvolta si possono verificare difetti di composizione. In questo caso si presenta la necessità di aggiungere al mosto qualche composto, come ad esempio carbonato o fosfato ammonico. Se invece si vuole frenare, ostacolare o bloccare del tutto la fermentazione si può ricorrere all’uso di anidride carbonica, che è il più noto antisettico in enologia e l’unico permesso dalla legge.

Acetalizzazione
 Etanolo C2 H5 OH+O2= acido acetico C2 H4 O2 + acqua H2O
 
 

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