Microscopia ottica: ingrandimento e microscopio ottico

La microscopia ottica è una tecnica di osservazione capace di produrre immagini ingrandite di oggetti o di particolari di essi, troppo piccoli per essere osservati a occhio nudo. Gli strumenti utilizzati per eseguire tale tecnica prendono il nome di microscopi ottici .

Per vedere un oggetto distintamente è necessario che sulla retina (delicato strato di fibre nervose) dell’occhio umano si formi un’immagine nitida, trasferita attraverso il nervo ottico al cervello da organi fotosensibili quali coni e bastoncelli. Il cristallino (costituito da una capsula contenente una sostanza fibrosa più solida al centro che alla periferia) ha le proprietà di una lente convergente in grado di modificare la sua forma e quindi la sua distanza focale; la sua elasticità consente all’occhio normale di accomodarsi per una visione distinta a tutte le distanze comprese tra dmin = 250 mm (distanza della visione distinta: punto prossimo) e l’infinito (punto remoto). Questa nostra lente convergente infatti non può accomodarsi per distanze inferiori a 250 mm.

La forma apparente di un oggetto è determinata dalla forma della sua immagine retinica, che dipende dall’angolo sotto il quale l’occhio vede l’oggetto. L’apertura angolare del campo visivo di un occhio normale è di circa 140°.

Quando si vuole esaminare un piccolo oggetto nei suoi dettagli, lo si avvicina il più possibile agli occhi, affinché l’angolo di osservazione sia il più piccolo possibile e l’immagine retinica la più grande possibile. Ma come detto la minima distanza alla quale l’occhio può adattarsi per una visione distinta è quella del punto prossimo.

Per ovviare a questo “inconveniente” si fa ricorso all’uso di sistemi ottici o sistemi di lenti ed in particolare al microscopio semplice o a quello composto.

Il microscopio semplice è una lente convergente posta tra l’occhio e l’oggetto da osservare in modo che quest’ultimo si trovi in posizione intermedia tra il primo piano focale e la lente stessa (vedi figura seguente). In tali condizioni la lente fornisce un’immagine virtuale dritta e ingrandita dell’oggetto osservabile dall’occhio, posto nel secondo fuoco della lente, anche se si trova ad una distanza dall’oggetto inferiore alla distanza di visione distinta.

 

L’ingrandimento angolare ottenuto osservando con una lente convergente (d’ingrandimento) un oggetto posto tra il fuoco e la lente stessa, è misurato dal rapporto fra l’angolo visuale sotteso dall’immagine dell’oggetto e l’angolo visuale sotteso dall’oggetto posto alla distanza della visione distinta. Non è possibile parlare di ingrandimento lineare (per le immagini retiniche), dato dal rapporto fra le dimensioni lineari dell’immagine e dell’oggetto, perché il cristallino non è una lente sottile e non gli si possono applicare relazioni semplificate (equazione delle lenti sottili).

L’angolo a sotto cui l’occhio vede l’immagine virtuale dell’oggetto è dato da:

a = h / F

dove h è l’altezza dell’oggetto e F è la lunghezza focale della lente in millimetri. Da considerazioni di carattere trigonometrico, sarebbe il sin a = h / F, ma essendo tali angoli in genere piccoli, si può approssimare il valore del seno dell’angolo al valore dell’angolo misurato in radianti.

L’angolo a’ sotto cui l’occhio vedrebbe lo stesso oggetto, qualora non si facesse uso della lente ed esso fosse disposto alla distanza della visione distinta (d = 250 mm), è dato da:

a’ = h / d

Il rapporto tra tali due angoli da appunto una misura di quanto siano aumentate le corrispondenti immagini retiniche; esso prende il nome di ingrandimento angolare M:

M = a / a’ = h / F / h / d = 250 / F

Dalla relazione risulta che l’ingrandimento angolare di una lente convergente è tanto più grande quanto più piccola è la sua lunghezza focale. Praticamente però, a causa delle aberrazioni (un esempio di aberrazione cromatica è mostrato nella figura a lato) che intervengono, non si possono utilizzare lenti con lunghezza focale inferiore a 20-30 mm. Di conseguenza il massimo ingrandimento angolare ottenibile con una singola lente è di 8-10 volte (8x).

Sostituendo la singola lente con un gruppo di lenti corretto in funzione di limitare al massimo l’effetto delle aberrazioni, si possono raggiungere ingrandimenti che arrivano anche a 40x.

Ingrandimenti maggiori si possono raggiungere invece grazie al microscopio composto, un sistema di due lenti convergenti dette, rispettivamente, obiettivo e oculare. In pratica queste due lenti sono a loro volta costituite da due combinazioni di lenti diverse tali da correggere e ridurre al minimo le aberrazioni, ma, dal punto di vista funzionale, il discorso non muta. L'oggetto da osservare viene posto davanti all'obiettivo (ad una distanza maggiore della sua lunghezza focale), che ne fornisce un'immagine reale, capovolta e ingrandita. Questa immagine viene fatta cadere davanti all'oculare a distanza opportuna, che ne dà un'altra, virtuale, ingrandita e capovolta rispetto all'originale.


Obiettivo ed oculare sono inseriti all'estremità di un tubo metallico della lunghezza standard di 160 mm, appoggiato su un sostegno detto stativo, il quale regge anche il piatto dove viene posto il preparato da osservare. La distanza tra obiettivo e preparato può essere variata con un movimento a cremagliera del tubo, regolato da due viti, quella macrometrica per spostamenti rapidi e quella micrometrica per la messa a fuoco. Con movimenti laterali del piatto si può esaminare la parte del preparato che interessa di più.
Sotto il piatto si trova il
condensatore che fa convergere sull'oggetto la luce prodotta da un’eventuale lampadina incorporata nel microscopio: il condensatore è munito di un diaframma regolabile. 

Le caratteristiche fondamentali di un microscopio ottico sono l'ingrandimento, il contrasto ed il potere di risoluzione.

L’ingrandimento visuale complessivo dello strumento, si calcola con criteri analoghi a quelli visti per una singola lente, ed in tal caso è dato dal prodotto dei due ingrandimenti: quello lineare dell’obiettivo per quello angolare dell’oculare. In definitiva avremo:

I = ( l / f1) (d / f2 )

Dove l = 160 mm coincide con la distanza tra i piani focali più vicini dell’obiettivo e dell’oculare chiamata lunghezza ottica del tubo; d = 250 mm è la distanza di visione distinta (punto prossimo); f1 e f2 sono rispettivamente le distanze focali dell’obiettivo e dell’oculare. I rapporti l/f1 e d/f2 rappresentano appunto l’ingrandimento, rispettivamente, dell’obiettivo e dell’oculare, i quali portano indicato normalmente il proprio ingrandimento, in modo che si possa facilmente calcolare l'ingrandimento totale per le combinazioni dei diversi obiettivi ed oculari, intercambiabili nei microscopi moderni.

Il contrasto dipende dal diverso assorbimento della luce da parte delle strutture osservate, che risultano così più o meno intense, formando un'immagine. Poiché la maggior parte dei componenti cellulari è trasparente alla luce visibile per l'abbondanza di acqua, non si rivelerebbe quasi nessuna struttura cellulare; si preferisce perciò colorare il preparato con sostanze che si legano in modo selettivo ai componenti delle strutture cellulari, diversificandole.

Il potere di risoluzione è un indice della ricchezza di particolari che si possono osservare nella struttura di un'immagine. Supponiamo che una certa struttura contenga due piccoli punti molto vicini. Se le immagini di questi due punti si sovrappongono non li si vede più come distinti, ma come una struttura unica. Se invece l'immagine li presenta ancora separati possiamo dire che il microscopio ha risolto (separato) questi due punti. La distanza minima alla quale due punti sono visti come distinti si chiama limite di risoluzione. Per il microscopio composto il valore del limite di risoluzione è definito dalla relazione nota come "formula di Abbe" che nella sua espressione più semplificata risulta d = K l (dove: d = potere di risoluzione; K = costante relativa all'obiettivo usato; l = lunghezza d'onda della luce impiegata). Usando luce bianca, cioè quella parte dello spettro elettromagnetico visibile dall'occhio umano, d risulta pari a 0,2 micron; con un aumento del potere risolvente rispetto a quello dell'occhio umano (che si aggira sugli 0,2 mm) di circa 1.000 volte.

Entrando nel dettaglio, si dimostra che la distanza d (limite di risoluzione) è legata alla lunghezza d’onda l della luce usata, all’indice di rifrazione n del mezzo interposto tra oggetto e obiettivo e all’angolo massimo a che un raggio luminoso proveniente dall’oggetto e ancora raccolto dall’obiettivo forma con l’asse ottico di quest’ultimo, dalla formula:

 

d = ( l l ) / ( 2n sin a )

 

La quantità n sen a prende il nome di apertura numerica (N.A.) dell’obiettivo. A causa del potere risolutivo finito, un ingrandimento superiore a un certo limite è del tutto illusorio in quanto non guadagna ulteriormente in dettaglio; in pratica non si usano ingrandimenti superiori a 2500x. Allo scopo di migliorare il potere risolutivo, cioè di diminuire d e quindi di poter usare ingrandimenti maggiori, si può agire in tre direzioni. Si può diminuire l , cioè osservare illuminando con luce violetta, che ha appunto la lunghezza d’onda minore della banda di luce visibile. Si può aumentare a, cioè l’apertura dell’obiettivo, e questo richiede una complessa combinazione di lenti per eliminare le aberrazioni in tal caso più evidenti. Si può infine aumentare n interponendo tra oggetto e obiettivo, a contatto con questo, un mezzo di indice di rifrazione maggiore dell’unità: si hanno in questo caso gli obbiettivi a immersione. Il mezzo usato è in genere un olio speciale. Mediante accorgimenti di tale genere si è giunti sino a valori dell’apertura numerica prossimi a 1,60. Il valore di d, facilmente calcolabile supponendo di usare luce normale, è in tal caso di circa 0,15 mm. Mediante il microscopio è possibile mettere a fuoco un sottile spessore del preparato. Tale spessore, detto profondità di fuoco, dipende dall’obiettivo usato ed è generalmente proporzionale al reciproco della radice quadrata dell’apertura numerica. Per N.A. = 1,40 e con luce normale è circa 0,25 mm.



MICROSCOPIA ELETTRONICA

Il limite invalicabile del potere risolutivo del microscopio ottico è legato sostanzialmente alla lunghezza d’onda della luce impiegata. Il potere risolutivo cresce proporzionalmente al decrescere della lunghezza d’onda della radiazione impiegata, infatti la scoperta che gli elettroni hanno una radiazione di bassissima  lunghezza d’onda ha suggerito la possibilità di usare fasci di elettroni per ottenere poteri risolutivi assai elevati.

In linea di principio un microscopio elettronico opera come un normale microscopio ottico qualora si usasse luce con lunghezza d’onda bassissima. Poiché però i normali dispositivi ottici non deviano gli elettroni, si ricorre a lenti elettrostatiche o a lenti magnetiche che, agendo sulla carica elettrica degli elettroni, ne provocano la deviazione. Il microscopio elettronico è essenzialmente composto da una sorgente elettronica di conveniente intensità ( generalmente un filamento incandescente che emette elettroni per effetto termoelettronico ) e da un dispositivo che imprime forti accelerazioni al fascio di elettroni emesso, sottoponendoli ad una elevata tensione in un range che và da 20 a 100 mila volt. Il fascio di elettroni accelerato attraversa un condensatore ( elettrostatico o magnetico ), incide sul campione, viene raccolto su un obbiettivo ( elettrostatico o magnetico ) e passando attraverso un oculare va ad incidere, o su uno schermo fluorescente o su una lastra fotografica formando l’immagine per l’osservazione visiva. Naturalmente quanto descritto avviene nel vuoto ultra spinto assicurato da un sistema di pompe.

In queste condizioni, la lunghezza d’onda degli elettroni va da 0.1 a 0.005 Å (1 angström = 10-10 metri ) in modo da risultare alcune decine di migliaia di volte più piccola della luce visibile.

Pur non raggiungendo i limiti teorici, il microscopio elettronico fornisce fino a 150.000 – 200.000 ingrandimenti,  con un potere risolutivo dell’ordine del milionesimo di millimetro ( millimicron ).

Il microscopio elettronico a scansione, indicato con la sigla SEM (Scansion Electron Microscope), fornisce informazioni sull’aspetto, sulla natura e sulle proprietà di superfici e degli strati sottostanti di campioni solitamente solidi, con risoluzione media di 2¸ 5 nanometri (riferita al segnale “generato” dagli elettroni secondari).

Per ottenere un’immagine al microscopio elettronico, la superficie di un campione solido è percorsa lungo un tracciato a reticolo con un fascio elettronico finemente focalizzato. Un tracciato a reticolo è una forma di scansione simile a quella usata nei tubi a raggi catodici, in cui un raggio elettronico è fatto scorrere sulla superficie lungo una linea retta orizzontale, riportato alla posizione precedente e traslata verticalmente di un incremento fisso: questo processo è ripetuto finché non è stata indagata tutta l’area prescelta della superficie.

Quando una superficie è “investita” da elettroni ad elevata energia sono prodotti diversi tipi di  segnali, alla base della microscopia elettronica a scansione sono principalmente due i segnali che interessano: gli elettroni secondari e quelli retroddifusi (backscatterati).

Gli elettroni secondari, o segnale SE (Secondary Electron), sono definiti convenzionalmente come gli elettroni uscenti dal campione con energia minore o uguale a 50 eV. Essi provengono da una profondità di pochi nm (nanometri) e scaturiscono dal fascio primario e dall’interazione degli elettroni retrodiffusi con gli elettroni di valenza (del campione). Gli SE forniscono informazioni sulla topografia delle superfici e sulla presenza e distribuzione di campi magnetici o elettrici; per rilevarli si fa uso di uno scintillatore/fototubo preceduto da uno stadio acceleratore. L’immagine fornita da tali elettroni appare in rilievo, come se l’osservatore fosse allo stesso livello del diaframma interno e guardasse l’oggetto illuminato da un’ipotetica sorgente situata in corrispondenza del rilevatore.

Gli elettroni retrodiffusi, o segnale BSE (Back-Scattered Electron), sono elettroni di energia maggiore di 50 eV che derivano principalmente dalle interazioni (singole a grande angolo o multiple, elastiche e non) del fascio primario con i nuclei degli atomi del campione. Gli BSE forniscono informazioni riguardo al numero atomico medio della zona di provenienza (circa qualche μm), alla topografia e alla struttura cristallina del campione.

I prodotti dell’interazione vengono raccolti da opportuni rivelatori ed i segnali ottenuti, vengono inviati a modulare l’intensità del fascio del tubo a raggi catodici. Il movimento di scansione della sonda e del pennello elettronico del tubo è controllato unicamente da un generatore, che ad ogni posizione della sonda sul preparato ne fa corrispondere una definita del pennello sullo schermo del tubo, la cui luminosa dipende quindi dall’intensità del segnale raccolto.

Gli elementi costituenti l’immagine finale prendono il nome di punti immagine o pixels (0.01 mm2). L’ingrandimento ottenuto con un tale sistema ottico, è dato dal rapporto fra la larghezza dello schermo del tubo a raggi catodici e la lunghezza del corrispondente tratto percorso dalla sonda sulla superficie del campione. Il limite alla risoluzione (minima distanza alla quale due punti rimangono distinti) del SEM è dovuto alle dimensioni del diametro geometrico della sonda, migliorabile (a parità di intensità di corrente del fascio, che determina il contrasto) mediante l’uso di sorgenti di alta brillanza e/o grandi angoli di apertura del cono di elettroni convergenti sulla superficie.

Il sistema ottico dello strumento è costituito da due lenti magnetiche: lente condensatrice e lente obiettivo. Le prime (costituite da una o più lenti) servono per il controllo del fascio elettronico che raggiunge l’obiettivo; le seconde determinano il fascio di elettroni incidente sulla superficie del campione.

La scansione è eseguita per mezzo di due coppie di bobine elettromagnetiche poste internamente alle lenti dell’obiettivo, queste muovono il pennello elettronico sulle coordinate cartesiane X e Y della superficie del campione tramite il segnale elettrico inviatogli. Tali segnali possono essere sia analogici che digitali; questi ultimi hanno il vantaggio di consentire un migliore movimento ed un eccellente posizionamento del fascio elettronico.

La progettazione delle camere porta campioni è realizzata in modo da facilitare lo scambio dei campioni facendo variare di poco la pressione da quella ambientale a quella di esercizio. Il porta campioni inoltre può variare nelle direzioni X, Y e Z, ruotando intorno ad essi, per esaminare il campione in ogni punto.

Per i campioni conduttori di elettricità lo studio si presenta più facile, poiché il flusso di elettroni a terra non è ostacolato riducendo al  minimo gli inconvenienti dovuti all’accumulo di cariche. Inoltre essendo dei buoni conduttori di calore, la degradazione termica è minima.

La tecnica più diffusa,.per ottenere immagini SEM da campioni non conduttori, consiste nel rivestire la superficie del campione di un sottile film metallico prodotto per  sputtering o per evaporazione sotto vuoto. Risulta altresì più semplice rivestire la superficie del campione di un sottile strato di grafite.

Il microscopio elettronico a trasmissione (TEM) è simile al SEM, in quanto entrambi impiegano un fascio di elettroni diretto sul campione. Questo significa che molte componenti come il cannone elettronico, le lenti condensatrici e il sistema di vuoto sono simili in entrambi gli strumenti. Tuttavia, i metodi con i quali queste immagini vengono prodotte ed ingrandite sono completamente differenti; mentre il SEM è principalmente utilizzato per lo studio delle superfici, il TEM fornisce informazioni circa la struttura interna del campione analizzato.

Il fascio elettronico è prodotto nel TEM, come nel SEM, da un filamento di tungsteno riscaldato, situato nella parte alta della colonna sotto vuoto; tale fascio viene accelerato verso il basso della colonna tramite alto voltaggio (75¸120 KV). Anche qui il fascio elettronico è condensato da lenti elettromagnetiche per attraversare una sezione del campione opportunamente assottigliata (100 nm o anche meno). Lo spessore del campione deve essere sufficientemente sottile in modo da consentire che alcuni degli elettroni incidenti siano in grado di attraversarlo; durante tale attraversamento molti elettroni sono assorbiti ed altri, in corrispondenza a disuniformità di arrangiamento atomico del cristallo, sono deviati irregolarmente. Dopo che il fascio ha attraversato il campione, viene focalizzato da una lente “obiettivo” e quindi allargato e proiettato su uno schermo fluorescente. Le zone dello schermo che appaiono scure sono dovute appunto ad un’irregolare deviazione degli elettroni da parte delle dislocazioni della struttura cristallina del campione .



La formazione dell’immagine dipende dalla diffrazione degli elettroni, che com’è noto hanno la doppia identità onda-particella. La lunghezza d’onda l è legata alla E (e quindi al V) della radiazione dalla relazione di de Broglie:

l = h / Ö (2mE)

E = eV

l = 2d× sen(j )

dove h = 6.6256× 10-34 (costante di Plank)

m = massa della particella associata alla radiazione incidente

E = energia della radiazione incidente

V = differenza di potenziale a cui accelero il fascio incidente

d = distanza interplanare

j = come da figura

 

Quando il fascio incide sul campione, una parte degli elettroni del medesimo viene diffratta, deviando dalla direzione del fascio trasmesso, mentre la restante passa attraverso il provino indisturbata; sia il fascio trasmesso che quello diffratto passano attraverso una lente obiettivo che ha il compito di focalizzarli sul piano I1, gli elettroni diffratti si incrociano nel punto b sul piano I1, e vanno a formare l’immagine oltre il piano I2; gli elettroni trasmessi si incrociano in a sul piano I1 e formeranno l’immagine oltre il piano I2. Quindi sullo schermo, posto a I2, il fascio degli elettroni diffratti si sovrappone esattamente al fascio di quelli trasmessi, contribuendo, con diverso contrasto, all’immagine.

Il discorso fatto assume l’ipotesi semplificativa che esista un unico piano che diffrange gli elettroni: allora esiste un unico punto b di diffrazione; è abbastanza ovvio che in realtà i piani che diffraggono gli elettroni sono invece molti, e quindi non si otterrà un unico punto di diffrazione, ma una matrice di "spot" di diffrazione, con al centro il punto a, lo spot del fascio trasmesso. A seconda delle esigenze e a seconda dell’area del fascio che si sceglie (maneggiando un diaframma) di far passare, si possono ottenere una serie di spot di diffrazione o una serie di circonferenze concentriche di diffrazione.

Il T.E.M. è realizzato in modo tale che sia possibile non solo mettere a fuoco l’immagine ingrandita su I2, ma anche gli spot di diffrazione su I1 .

Utilizzando il microscopio, l’operatore può decidere di utilizzare il fascio diretto o quello diffratto, mediante un diaframma, per formare l’immagine sullo schermo; la riproduzione dell’immagine sullo schermo è dovuta a fenomeni di contrasto. Il termine contrasto si riferisce alle differenze di intensità che rendono distinguibili dallo sfondo le parti di un’immagine, e lo si può definire come:

 

( I-B ) / B = Contrasto

dove: I = intensità locale (luminosità)

B = intensità dello sfondo

Il contrasto di diffrazione è dovuto all’uso del diaframma che permette il passaggio dei soli elettroni deviati secondo un certo angolo; questo significa che qualunque cosa crei delle alterazioni negli angoli del reticolo (presenza di dislocazioni, precipitati, inclusioni, difetti di vario genere) altera la diffrazione degli elettroni e crea fenomeni di contrasto che permettono di individuare la causa che ha creato la diffrazione sullo schermo.

Dato che in assenza del provino l’immagine appare chiara, e che le imperfezioni reticolari (o i precipitati) che deformano il reticolo creano contrasti scuri, il modo di visualizzazione che usa il fascio diffratto si dice "campo chiaro" (BF = Bright Field).

Analogamente si può posizionare il diaframma selezionando il passaggio del solo fascio diretto; analogamente a quanto visto sopra, ogni cosa che crei nel reticolo distorsioni altera le condizioni di diffrazione del fascio, creando quei fenomeni di contrasto che permettono di vedere l’immagine sullo schermo. Questa volta in assenza del campione l’immagine appare scura e il contrasto provocato dal campione è chiaro; questa modalità di visualizzazione si dice "campo scuro" (DF = Dark Field).

Dal momento che saranno oggetto di diffrazione solo gli elementi che si trovano a dati angoli col fascio incidente, il portacampioni del T.E.M. è realizzato in modo tale da poter ruotare in ogni senso il campione, in modo da trovare le diffrazioni (e quindi i contrasti) che più ci interessano, inclinando in modo opportuno il campione rispetto al fascio.


La microscopia ottica, elettronica e microanalisi applicata ai beni culturali

L’applicazione della microscopia ottica ed elettronica nel campo dei Beni Culturali fornisce un contributo scientifico di estremo interesse. Infatti, è applicata per indagini diagnostiche finalizzate sia al restauro, individuazione di tecniche artistiche, analisi della componente pittorica, analisi di materiale artistico di varia natura, ecc, sia alla conservazione di opere di notevole prestigio storico-artistico.

  Obiettivi

    L’utilizzo del microscopio ottico, elettronico a scansione, microanalisi ed analisi d’immagini permette l’analisi approfondita relativa sia alla morfologia della superficie che alla composizione chimica elementale di campioni di vario tipo ad elevati ingrandimenti, fornendo importanti informazioni utilizzabili durante i processi di restauro e di conservazione delle opere d’arte.

    Vantaggi

    -         L’analisi al microscopio ottico di un campione fornisce un’importante serie di informazioni riguardanti sia la tecnica esecutiva che lo stato di conservazione dell’opera d’arte

    -         -Microscopia elettronica a scansione e microanalisi elettronica hanno lo scopo specifico di approfondire le conoscenze sulla struttura e composizione chimica dei materiali

    -         Il microscopio elettronico a scansione permette, infatti, di osservare la superficie di oggetti solidi con grande risoluzione nei dettagli e ad elevati ingrandimenti

    -         La microsonda elettronica è una tecnica di microanalisi elementale semiquantitativa della superficie dei materiali, non distruttiva per il campione. Dall’analisi elementale si risale alla composizione chimica, mettendo in evidenza particolari relativi alla tecnica pittorica o fenomeni di alterazione e di degrado presenti nell’opera d’arte

    Tecnologie

    -         il microscopio ottico permette l’osservazione di particolari non visibili ad occhio nudo, ed è perciò considerato uno strumento indispensabile all’osservazione preliminare e alla preparazione del campione destinato ad altre analisi, quali al SEM

    -         il microscopio elettronico a scansione (SEM) a differenza del microscopio ottico, si basa su l’utilizzazione di un fascio di elettroni al posto di onde luminose e quindi sull’impiego di un’ottica elettromagnetica,  permette di osservare la superficie di oggetti ad elevati ingrandimenti e di fornire immagini tridimensionali molto realistiche. Le informazioni ricavabili sono di tipo morfologico-qualitativo di particolari del campione, relativi soprattutto alla superficie esterna

    -         la microsonda elettronica (EDS), utilizzando le proprietà dei raggi X emessi dalla superficie del campione colpita dagli elettroni, permette di eseguire analisi chimiche elementali semi quantitative del campione. Tale analisi è eseguibile su materiali di vario genere ed è possibile ottenere informazioni dettagliate sulla natura chimica delle sostanze che li compongono

    -         l’analisi d’immagini, permette di registrare l’immagine del campione in osservazione e consente di eseguire delle misure sull’immagine in esame quali, ad esempio: spessori, volumi, conteggi di particelle, ecc, ottenendo, così, una quantizzazione dell’immagine.

     

    Metodologie

     -         prelievo del campione eseguito dal restauratore scelto in zone di particolare interesse

    -         la tecnica di preparazione dei campioni è uguale sia per l’osservazione al microscopio ottico che elettronico a scansione

    -          inclusione del frammento in resina poliesterica polimerizzabile a freddo, con funzione di supporto; la resina incolore viene poi pulita tramite molatrice e lucidata per abrasione mediante carta abrasiva grossa e poi fina in modo da rendere visibile la superficie da analizzare.

    -         osservazione al microscopio ottico per un’analisi preliminare della struttura del frammento e poi al microscopio elettronico a scansione e microsonda elettronica per l’analisi della componete pittorica o chimica del materiale.

    -          il campione può essere osservato direttamente senza inclusione in resina in base alla natura del materiale e al tipo di indagine richiesta.

Il ruolo della scienza nella conservazione dei beni culturali

Non esiste oggi opera d’arte di rilievo, o in alternativa interessata da gravi problemi di degrado, il cui restauro non si avvalga del contributo diagnostico della scienza. I metodi dell’indagine scientifica applicati alle opere d’arte fanno oramai parte integrante del progetto di restauro, al quale si perviene solo dopo aver esaminato a fondo la natura dei materiali costitutivi del manufatto e la sua tecnica di esecuzione, ma soprattutto dopo aver definito con precisione il suo stato di conservazione. La scienza (chimica, fisica, biologia, geologia, ottica, elettronica, informatica, etc.) sono chiamate in causa non solo nella fase di messa a punto del progetto d’intervento ma anche nel corso stesso del restauro, per eseguire, controlli e verifiche; e talvolta dopo, per tenere sotto sorveglianza l’oggetto o più spesso l’ambiente che lo circonda. Al di là di ogni intrinseco valore culturale o artistico attribuibile a oggetti e monumenti del nostro passato patrimonio culturale è l’unicità stessa a renderli singolarmente preziosi e degni di conseguenza di ogni speciale attenzione. Errori sono stati fatti in passato ed errori vengono compiuti oggi, nonostante la scienza, tanto è oggettivamente complessa la prassi di conservazione. Ma attualmente si dispone almeno di una consapevolezza oggettivamente maggiore dei problemi e anche se per molti di questi non vi è ancora una soluzione, si conoscono, proprio grazie alla scienza, la natura materica degli oggetti e le cause del degrado e si sa in quale direzione cercare metodi e materiali per migliorare gli interventi conservativi. Vi è un notevole parallelismo – con le dovute e talvolta sostanziali differenze – con quanto attiene la salute umana: diagnosi, terapie, interventi. Gli esseri umani, tuttavia, pur apparentemente così diversi l’uno rispetto all’altro e così più complessi di un’opera d’arte, hanno però una costituzione (anatomia) e un comportamento (fisiologia) estremamente più simili e ripetitivi rispetto a manufatti e monumenti antichi. Questi ultimi vengono da lontano nel tempo. Sono espressione di culture spesso tra loro distanti, hanno storie conservative del tutto specifiche che di fatto, quand’anche all’origine simili, li hanno profondamente diversificati. Ogni oggetto è un caso-studio e questo non facilita certo l’elaborazione di un progetto conservativo. La scienza, come si diceva, negli ultimi quarant’anni ha offerto un grande aiuto alla conservazione ma vi è ancora un elemento di complessità che ne ostacola il pieno utilizzo. La conservazione è il punto di convergenza di professionalità diverse: umanistiche (storici, architetti, archeologi), scientifiche (chimici, fisici, geologi, etc), operative (restauratori, conservatori). Ognuna possiede un proprio linguaggio, una propria impostazione mentale, un proprio modo di considerare i problemi, e fortunatamente, una propria competenza in merito. Proprio per questo la convergenza è fondamentale, ma allo stesso tempo difficile, non immediata.

Cenni sullo scavo archeologico
L'unico modo per verificare la realtà di un sito è esaminare direttamente ciò che rimane oggi scavandolo. Lo scavo offre dati molto chiari riguardo a due tipi di informazioni:
1) Le attività umane in un particolare periodo del passato
2) Il mutare di queste attività da un periodo all'altro
Lo scavo che da sempre affascina per la sua realizzazione sul campo curiosi e appassionati del "mondo archeologico" è in realtà una delle ultime fasi di una indagine archeologica compiuta su un dato sito.
Solitamente si usano metodi di ricognizione sul sito, compiuti senza ledere il territorio indagato con la fotografia aerea o sonde per il suolo.  Lo scavo al contrario di quanto si possa credere è una pratica costosa e soprattutto distruttiva, proprio per questo si preferisce usare metodi non distruttivi quando è possibile. Esistono diverse modalità di scavo che comunque devono sempre tenere presente le domande che si pone la ricerca riguardo ad un determinato sito da indagare.
Le tecniche di scavo si possono dividere in:

1) tecniche che privilegiano la dimensione verticale (con dimensione verticale si intendono tutti i cambiamenti delle attività umane su un sito avvenute nel tempo) aprendo una serie di tagli in depositi profondi per rilevarne la stratificazione.

2) tecniche che focalizzano l'attenzione sulla dimensione orizzontale (con dimensione orizzontale si intendono i fatti che si svolgono contemporaneamente e che si collocano orizzontalmente nello spazio) esponendo grandi superfici di un dato strato allo scopo di evidenziare le relazioni spaziali tra manufatti ed elementi presenti.

La maggior parte degli archeologi moderni usano una combinazione di entrambe le strategie di scavo sopra elencate, questo perché in archeologia nessun metodo risulta essere di per sé stesso completamente esaustivo, necessita sempre di apporti provenienti da nuove tecniche e da discipline affini.
Un concetto chiave in archeologia e in particolare nella pratica dello scavo è la stratigrafia. Essa parte dall'osservazione dei processi di stratificazione dove gli strati si dispongono li uni sugli altri secondo un processo che continua tuttora.
Quando uno strato ne sovrasta un altro quello inferiore è stato deposto prima dell'altro, il profilo verticale di uno scavo che presenta una serie di strati, costituisce una sequenza che è andata accumulandosi con il passare del tempo.

SISTEMA DI SCAVO PER QUADRATI DI WHEELER: tale complesso sistema fu sviluppato da Mortimer Wheeler un archeologo della fine dell'800. Lo scavo soddisfa le necessità di analisi sia orizzontale che verticale conservando intatta una serie di riquadri di terreno non scavati detti testimoni tra i quadrati scavati. Una volta accertata l'estensione complessiva del sito alcuni testimoni possono essere rimossi riunendo così i quadrati in un'unica superficie in modo da esporre nella loro integrità gli elementi stratigrafici. Tale metodo però presentava lo svantaggio che spesso i testimoni venivano a trovarsi nel posto sbagliato.


SISTEMA DI SCAVO PER GRANDI AREE: questo sistema di scavo nasce in opposizione a quello di Wheeler, prevede l'apertura di grandi aree di scavo, tralasciando l'uso dei testimoni, creando sezioni verticali dove è necessario chiarire le relazioni stratigrafiche.
L'introduzione dei computer portatili rende attuabile nella pratica tale metodo.

Questo metodo risulta utile nei depositi che risalgono ad un unico periodo e che giacciono in prossimità della superficie.

Otre a questi metodi di scavo ne esistono altri quali ad esempio: scavo per trincee e gradoni o a sistemi di paratie.
Il lavoro dell'archeologo da sempre affascina proprio perché lo si associa sempre all'immagine di uno scavo, in realtà si basa sulla ricognizione del suolo, poiché l'azione di scavo, seppur estremamente affascinante e coinvolgente nella maggior parte dei casi è distruttiva visto che va a sconvolgere un sito con la possibilità di distruggere una situazione originaria che si era conservata nel tempo.
Da: http://www.arche-srl.it/sito_arche/arch_ric_it.html

L'informatica e l'archeologia. Si può affermare abbia di fatto modificato l'output della documentazione grafica e informativa, sia nell'ambito dello scavo che della classificazione dei siti e dei reperti o della successiva musealizzazione.

La digitalizzazione in scala dei dati di scavo avviene mentre si opera sul campo, con il vantaggio considerevole di avere tutta la documentazione informatizzata a scavo appena concluso, permettendo anche la ricostruzione tridimensionale di ogni superficie di scavo. Il risultato finale è una versione completamente digitale di tutti i dati di scavo, stampabili su supporti cartacei e in versioni tematiche (ad esempio piante di fase, a colori, con retini personalizzati, ecc.), ma interamente registrabile su supporti indistruttibili ed altamente affidabili come i cd rom. Possiamo immaginare il sistema anche come una sorta di scavo virtuale-multimediale in cui si ripercorrono, passo dopo passo, tutte le fasi operative, visualizzando stratigrafie, strutture e superfici sia in versione grafica, che in relazione alle schede e ai database. In questo modo si potranno avviare ricerche complesse di analisi spaziali e distributive, su singoli reperti, richiamando le interrogazioni sia dai database (ricerche per codici, testi, parole-chiave o tematismi), oppure selezionando gli elementi grafici di interesse, ad esempio tutte le strutture di una certa fase associate a determinate classi di materiali. Sarà possibile incrociare tutti i tipi di indagine (testo-grafica-numeri-campi, ecc.), visualizzando al computer (e di conseguenza stampando) ogni tipo o classe di informazione.

Sulla base delle tecnologie più innovative il sistema digitalizzato può offrire rilevamenti topografici di elevata precisione effettuati con stazioni laser integrate al personal computer. Possono essere rilevati:
rilevamenti topografici a grande scala su base territoriale (survey) e per il posizionamento topografico di aree di scavo;
rilevamenti sullo scavo di strutture, unità stratigrafiche e distribuzione di materiali;
rilevamenti altimetrici a curve di livello;
elaborazione dei dati altimetrici per la creazione di modelli digitali del terreno in tre dimensioni.
Analisi antropologiche.
Lo studio degli scheletri umani fornisce una serie di interessanti informazioni, riguardanti non solo le caratteristiche antropologiche della popolazione in esame, ma anche il loro stile di vita.
La presenza dell'antropologo sullo scavo limita la perdita di informazioni di cui spesso si è testimoni, a tutto vantaggio della qualità della ricerca. L'integrazione delle informazioni di carattere antropologico con quelle fornite dagli studi archeologici e/o storici, archeozoologici, paleobotanici, ecc., completa e arricchisce la conoscenza della società, dell'economia e dello stile di vita delle popolazioni del passato.
Datazioni.
Gli archeologi hanno avvertito la necessità di riferire i rinvenimenti a uno schema cronologico al fine di poterli studiare sotto una prospettiva temporale, per tale motivo hanno rivolto la loro attenzione a vari metodi di datazione che fornissero un indicazione precisa del momento storico in cui un manufatto è stato prodotto o un evento è accaduto. I metodi di datazione assoluti consentono, con l’ausilio di procedimenti chimici o fisici, di determinare le varie epoche dei manufatti analizzati sia come anni dal presente sia come anni del calendario. I metodi più utilizzati in archeologia sono i seguenti: dendrocronologia, metodo del radiocarbonio, metodo del potassio/argon, metodo dell’uranio/torio, termoluminescenza e paleomagnetismo.
La dendrocronologia è un metodo di datazione biologica che si basa sull’analisi delle sequenze degli anelli di accrescimento degli alberi; esso consente di datare i manufatti lignei (oggetti e strutture) rinvenuti nei siti archeologici. Il metodo di datazione si basa sul principio secondo cui ogni anno gli alberi aggiungono un anello di crescita che registra le minime variazioni del clima e dell’umidità; l’ampiezza dell’anello è relativamente sottile durante le annate asciutte, mentre essa tende a diventare spessa durante le annate umide. Al momento del taglio dell’albero, queste variazioni dei singoli anelli di accrescimento consentono di determinarne l’età. Pertanto alberi della stessa specie e della stessa età cresciuti in aree con condizioni climatiche simili presentano sequenze degli anelli di crescita più o meno simili. Nel caso di alberi più vecchi e più giovani le cui età si sovrappongono è possibile realizzare una cronologia relativa confrontando gli anelli di crescita dello stesso anno. Le età assolute possono essere ottenute sovrapponendo le sequenze degli anelli di crescita sino agli alberi viventi. La sequenza più lunga e più antica ottenuta sino ad ora è quella fornita dal Pinus aristata per l’America occidentale che risale sino a 9.000 anni fa.
Il metodo del radiocarbonio consente di determinare l’età dei materiali organici contenenti carbonio. Il metodo si basa sulla decomposizione radioattiva dell’isotopo 14 contenuto nel campione di azoto, con l’emissione di particelle che ha inizio allorché un organismo muore e cessa di scambiare carbonio 14 (C14) con l’atmosfera. Nel momento in cui una pianta, un animale o un uomo muoiono viene a cessare l’assunzione di C14, la sua concentrazione, prima costante, comincia a diminuire per effetto del decadimento radioattivo. Conoscendo la velocità di decadimento del C14 e misurandone la quantità rimasta nel campione analizzato, si può determinare l’età di un tessuto, di un manufatto ligneo o di animale morto. Le tracce di C14 sono piccolissime già all’inizio e si riducono alla metà dopo 5.730 anni; dopo 23.000 anni, in un campione rimane perciò solo un sedicesimo della già modesta quantità iniziale di C14. La precisione delle datazioni con il metodo del C14 è condizionata da vari errori: influenza delle radiazioni cosmiche, errori di conteggio e da possibili inquinamenti dei campioni. Per tale motivo le date ottenute sono sempre accompagnate da una stima dell’errore probabile (8.050 ± 150 a. C.). Una delle ipotesi fondamentali del metodo C14 è risultata non del tutto corretta: la concentrazione di C14 nell’atmosfera non è infatti rimasta costante nel corso del tempo, ma è mutata in relazione alle variazioni del campo magnetico terrestre, a conseguenza di ciò è necessaria una calibrazione delle date ottenute. La dendrocronologia fornisce il metro di confronto cronologico di riferimento alle datazioni C14. Le date ottenute con il metodo del radiocarbonio dagli anelli di accrescimento degli alberi indicano che prima del 1.000 a. C. circa le date espresse in anni determinati con il C14 risultano progressivamente più recenti rispetto a quelle espresse in veri anni di calendario. Prima del 1.000 a.C., gli alberi e tutti gli altri organismi viventi erano esposti a concentrazioni atmosferiche maggiori di C14 di quelle  a cui sono esposti oggi. L’apporto delle sequenze dendrocronologiche degli anelli di accrescimento del Pinus aristata  e della quercia ha consentito per l’Europa e il Nord America la definizione di curve di calibrazione valide fino al 7.000 a. C. (9.000 anni fa). Le curve consentono agli archeologi di calibrare una data con il radiocarbonio traducendola in anni di calendario.
Il metodo dell’uranio/torio si basa sul processo di decadimento dell’isotopo radioattivo 238 dell’uranio, solubile nell’acqua, dove si combina con il carbonato di calcio. Il decadimento radioattivo determina la trasformazione dell’isotopo 238 dell’uranio nell’isotopo 234 prima e quindi in torio, insolubile in acqua. Gli organismi viventi nelle acque, come conchiglie e coralli, e gli organismi terrestri che assorbono le acque sotterranee al momento della morte sono ricchi di uranio 234 e poveri di torio; da questo momento in poi inizia il decadimento dell’isotopo instabile dell’uranio determinando un accumulo di torio. La misura del rapporto tra la quantità di uranio e torio presente nel campione analizzato consente la sua datazione, giacché il tempo di decadimento è noto. L’arco cronologico che può essere datato con questo metodo va da alcune migliaia d’anni fino a circa 350.000 anni fa.
Il metodo del potassio/argon interessa la datazione delle rocce magmatiche. Esso si basa sul principio che il potassio radioattivo presente al momento del raffreddamento di una roccia magmatica si disintegra producendo argon. La misurazione del rapporto potassio/argon di certi minerali consente quindi di datare il momento del raffreddamento. Con questo metodo è possibile datare rocce eruttive in relazione con depositi antropici, ottenendo così per questi ultimi dei termini ante quem o post quem. Il metodo viene normalmente applicato per periodi più antichi di 100.000 anni da oggi.
La datazione mediante termoluminescenza serve per datare materiali archeologici che hanno subito un trattamento termico. Questo metodo di datazione si basa sul seguente fenomeno: all’interno di un cristallo, al momento della formazione, sono presenti delle cavità elettrostaticamente positive che costituiscono delle trappole per gli elettroni liberi che circolano in esso; gli elettroni occuperanno le cavità esistenti fino a saturarle a meno che non vengano liberati in seguito a riscaldamento. Quando, infatti, il materiale  viene riscaldato o esposto alla luce, gli elettroni intrappolati nelle cavità vengono liberati, rilasciando energia sotto forma di luce, detta termoluminescenza. Il segnale è una misura dell’esposizione alle radiazioni che è stata accumulata; più lunga è stata l’esposizione o più forte è stato il livello di radiazione, maggiore è la termoluminescenza emessa dal campione. Le datazioni fino ad ora più antiche ottenute con il metodo della termoluminescenza riportano a circa 300.000 anni fa.
La datazione archeomagnetica si basa sul paleomagnetismo delle rocce che sono state naturalmente sottoposte a riscaldamento. Il campo magnetico terrestre ha subito nel tempo numerose variazioni di senso, sia quale conseguenza della variazione dell’asse dei poli magnetici sia per effetto della deriva dei continenti. Poiché le rocce vulcaniche durante il raffreddamento risentono l’influenza del campo magnetico terrestre, misurando il magnetismo residuo, esse consentono di individuare il campo magnetico esistente al momento della solidificazione. Il dato ottenuto viene confrontato con una curva cronologica di riferimento del paleomagnetismo terrestre che consente di ricavare l’epoca in cui è avvenuto il riscaldamento.

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