Il presente: l’Enogastronomia.

Dom Pérignon.

Tra tutti i grandi vini del mondo ce n’è uno buonissimo e preziosissimo, si chiama Champagne, e l’uomo a cui si attribuisce il merito di averlo inventato era un monaco benedettino. Dom Pierre Pérignon, tesoriere dell’abbazia di Hautviller, ascetico e pignolo, guardava le colline dell’abbazia ammantate di viti. Hautvillers fu fondata nel 650 nello spirito di Colombano, era un luogo di preghiera e di lavoro per instancabili asceti, la santità del luogo era assicurata dal possesso dei resti di S.Elena madre dell’Imperatore Costantino. Perignon divenne col tempo un santo protettore dello champagne. Nel 1668 quando aveva 29 anni, lo champagne della zona era avvilito da guerre e carestie, Perignon decise di potenziare la produzione vinicola, nel 1661 l’abate ordinò la costruzione di una nuova grande cantina a volte, hautvillers possedeva solo una decina di ettari di vigne ma riceveva decime pagate in natura cioè con pinot, dai villaggi confinanti. Le uve erano nere. Le regole auree della vinificazione stabilite ai tempi di Dom Perignon probabilmente da lui stesso, vennero esposte nel 1718 tre anni dopo la sua morte. Primo usare solo pinot noir, i vigneti della regione contenevano anche pinot meunier, pinot gris (o fromenteau) pint blanc (o morillon) chasselas e forse chardonnay. Dom Perignon era contrario all’uva bianca in parte perché incoraggia una tendenza latente del vino a rifermentare. Secondo potare a fondo le viti in modo che non superino mai il metro di altezza e producano poca uva. Terzo vendemmiare con ogni precauzione in modo che gli acini restino intatti, attaccati ai raspi, e il più freddi possibile. Lavorare al mattino presto, Scegliere i giorni di temporale quando fa caldo, scartare tutti gli acini rotti o anche solo ammaccati. Gli acini piccoli sono migliori di quelli grossi, Stendere delle stuoie di vimini sull’aia e controllare il raccolto, eliminando gli acini guasti, le foglie e tutto ciò che è indesiderabile. Stendere un telo bagnato sull’uva per proteggerla dal sole. L’uva deve rimanere fresca a tutti i costi. Se possibile lavorare vicino al torchio, in modo da potervi portare l’uva a mano, ma se si può evitare di usare animali, scegliere se mai i muli, perché sono meno eccitabili dei cavalli. In mancanza di muli usare gli asini. Quarto non pigiare l’uva con i piedi per nessuna ragione e non permettere nessuan macerazione delle vinacce nel mosto, Usare un torchio efficiente e veloce, (perciò i contadini non avrebbero mai potuto fare questo tipo di vino), usareil torchio ripetutamente per tempi brevi, tenendo i mosti separate delle diverse spremiture. Il primo vino che scaturisce dalla pressa cioè il vin de goutte, viene spremuto dal solo peso della trave di legno. Il suo vino è troppo delicato per essere bevuto da solo: gli manca il corpo. Il secondo e terzo chiamato primo e secondo taille, perché la massa di uva deve essere tagliata a pezzi e rimessa nel torchio, danno mosti di buona qualità, Il quarto, o vin de taille, è raramente accetabile, e tutti i tagli successivi sono vins de pressoir, ma ormai sono decisamente colorati e quindi privi di interesse per il cantiniere professionista. Dom Perignon sapeva sapientemente accostare le uve migliori, provenienti da vigneti diversi. L’esperienza dimostrò che più il vino era leggero e tendente al verde, più diventava frizzante in primavera. Il vino di uva bianca era frizzante: questo era uno dei motivi per cui Perignon usava soltanto uve nere, ed il vino di uva nera era anche più durevole e si poteva maturare e mantenere anche per molti anni.
Quando Dom Perignon aveva circa sessanta anni, la preferenza del pubblico si orientava verso quei vini frizzanti che egli aveva tutta la vita cercare di evitare, i produttori esagerarono con le uve bianche ed acerbe che conferivano al vino maggiore frizzantezza. Bertin de Rocheret, commerciante di champagne, defini uno di questi vini “verde e rozzo come un cane, secco come il diavolo”. Comunque la cantina era un fattore importante, specialmente con i vini frizzanti. Una cantina profonda con temperature costanti poteva essere il fattore decisivo per evitare che le bottiglie esplodessero. Dom Perignon sapeva che sotto la città di Reims esistevano enormi caverne scavate dai romani per ottenere pietra da costruzione. Nel 1716 compare Claude Moet, un produttore di Epernay, ora la produzione dello champagne era diventata complicata, e richiedeva capitali per comprare il vino e per l’imbottigliamento.


Louis Pasteur
I dispiaceri
Intorno al 1862 Louis Pasteur fu convocato dal Re di Francia Luigi Napoleone. Molte bottiglie di champagne e vino francese che tra l’altro erano esportate numerose, dopo un certo periodo si guastavano e diventavano aceto. Pasteur si rese conto che la fermentazione era attuata da organismi e lieviti che si riproducevano casualmente. La vera ragione era dovuta al propagarsi dell’oidio. Le viti indebolite dalla malattia producevano vino soggetto ad ammalarsi. L’equilibrio dei vini si alterò: nulla da questo momento sarà come prima. I batteri che si propagavano numerosi potevano essere inibiti solo dalla mancanza di ossigeno, Pasteur con il microscopio ottico ed i suoi vetrini dimostrò che un vino chiuso ermeticamente con il suo tappo di sughero,  immesso in un bagnomaria caldo per un tempo sufficiente ad uccidere i batteri, rimaneva inalterato. L’operazione si sarebbe chiamata pastorizzazione, e poteva essere applicata anche ad altre sostanze come latte, conserve e marmellate. I risultati ottenuti da Pasteur fecero di lui un eroe nazionale della Francia.
Dopo circa un anno, apparve un altro nemico della vite, pericolosissimo e temibile, era la fillossera, dopo di questa arrivò la peronospora. Questi parassiti non si limitarono a devastare quasi tutti i vigneti d’Europa, ma causarono cambiamenti radicali nei metodi di coltivazione della vite. Da questo momento il vino perse la sua “innocenza”, era finita definitivamente l’età dell’oro.
L’oidio è un fungo parassita, che attaccava all’inizio dell’estate i grappoli d’uva, e li rendeva inservibili per la produzione vinicola, dalla Francia dal 1851 la malattia gradatamente si spostò in Italia, causando una forte caduta della produzione, la malattia si rilevava attraverso una polvere bianca, che si addensava sul chicco delle uve, e poteva colpire anche altre piante da frutto. In alcune località italiane attraversate dalle prime linee ferroviarie, i contadini credevano che la malattia fosse causata dai fumi delle locomotive. Dopo lunghi tentativi finalmente in Toscana l’accademia dei Georgofili prese in mano la situazione, i rimedi proposti da studiosi ed appassionati erano vari, si andava dall’uso della calce, a quello della cenere, dal sapone sciolto nell’acqua ad altri miscugli stravaganti, ma la situazione stava precipitando. Fortunatamente l’uso della polvere dello zolfo si rivelò positiva, naturalmente non mancavano timori relativi all’alterazione dei gusti. In Toscana il consumo medio giornaliero di vino era molto elevato; ogni toscano bevevo circa un terzo di fiasco, circa mezzo litro. Sempre in Toscana ci fu Bettino Ricasoli che stava meditando di abbandonare Brolio per acquistare nella Maremma toscana terreni da grande coltura.  Comunque fin dal 1855 fu visto che il metodo della zolfatara era il mezzo per sconfiggere definitivamente l’oidio delle viti.


Le piccolissime dimensioni della fillossera ed il complesso ciclo vitale.
La Fillossera,  è un parassita praticamente invisibile all’occhio umano, coltivatori viticoli americani non riuscivano nell’intento di propagare le viti importate dal vecchio continente, era una malattia endemica delle Americhe. Intorno al 1850 le nove velocissime navi a vapore, utilizzate per le traversate atlantiche abbatterono la durata dei tempi di navigazione, bastavano nove giorni ad una nave che partiva da new York per arrivare in Francia e portare il parassita della fillossera vivo. Da un piccolo numero di insetti importati si formò ben presto una popolazione ragguardevole. Le foglie delle viti ammalate si avvizzivano e cadevano, le nuove radici che la pianta emetteva erano prive di vigore, i frutti rimanevano acerbi, tre anni dopo i primi sintomi la pianta moriva. L’aspetto più appariscente della vite morta, quando viene sradicata per essere esaminata, è il fatto che il suo apparato radicale è praticamente morto e scomparso. Le radici delle viti ammalate e sradicate sembravano una massa brulicante di piccolissimi afidi, grandi quanto una punta di spillo e talmante numerosi che le radici sembravano dipinte di giallo. L’insetto aveva anche una forma alata, è un altro afide con ali piatte e trasparenti, per il grande numero di parassiti che colpivano contemporaneamente la vite il parassita fu chiamata dal botanico francese  Jules-Emile Planchon,  Philloxera vastatrix. I danni provocati da questo afide sono differenti in base alla specie di vite colpita: sulle viti europee (Vitis vinifera, Vitis silvestris) la fillossera provoca danni limitati al solo apparato radicale e non sulla chioma (anche se ultimamente sono stati riscontrati numerosi casi di danni fogliari anche su viti europee); sulle viti americane (Vitis rupestris, Vitis berlandieri, Vitis riparia) provoca danni limitati all'apparato aereo e non sulle radici. Sulle radici si formano tuberosità e nodosità in seguito alle punture effettuate dall'insetto. In questo modo viene compromessa la normale funzionalità dell'apparato radicale, che va incontro a disfacimento. Inoltre l'afide penetra all'interno della radice stessa dove produce sostanze ormonali che rendono il tessuto più debole e facilmente attaccabile da funghi e batteri, responsabili di infezioni letali (ad es. cancri). Sulle foglie le punture della fillossera provocano la formazione, in prossimità della pagina inferiore, di "galle" all'interno di ognuna delle quali sono alloggiate in media 500 uova. Anche i piccioli fogliari, i viticci ed i tralci erbacei vengono interessati dall'attacco dell'afide. La lotta alla fillossera consiste essenzialmente nel ricercare le varietà americane più adatte a fungere da portinnesto per quelle europee. Nella costituzione di nuovi impianti, vengono cioè utilizzate piante innestate in cui l'apparato radicale (portinnesto o piede), resistente alla fillossera, viene fornito da specie americane; mentre la porzione epigea (varietà innestata) appartiene a specie europee. Nelle zone, invece, dove ancora vengono utilizzate viti non innestate, la lotta alla fillossera viene fatta tramite alcuni importanti accorgimenti quali: impiantare su terreni sabbiosi, che ostacolano la diffusione dell'afide; disinfestare il terreno prima di un nuovo impianto. Alla fine dell’Ottocento la superficie italiana colpita dalla fillossera ammontava a circa 300.000 ettari. In Italia la generale ricostruzione della viticoltura pose il problema della scelta tra il sistema a viti basse ed a sostegni secchi o delle viti alte alberate. In generale la viticoltura nazionale, vide progredire la viticoltura specializzata. Nella vigna  specializzata tutti i lavori si effettuavano con maggiore facilità e con meno dispendio di energie, e talvolta per i trattamenti anticrittogamici poteva significare la salvezza del prodotto. All’espandersi del parassita, vi fu comunque la necessità di salvare le viti europee non innestare su vite americana, alcuni ricorsero a mezzi chimici. Il chimico Paul Thenard ad esempio scoprì che una sostanza chiamata bisolfuro ci carbonio, che si ottiene facendo passare vapori di zolfo su un letto di carbone rovente, era estremamente tossica per la fillossera e per quasi tutti gli esseri viventi. Iniettata nel suolo alla base delle viti, eliminava qualsiasi segno di vita. Nei primi esperimenti Thenard usò dosi troppo massicce uccidendo anche le viti, inoltre i fumi provocavano malesseri agli operai. La routine della viticoltura era a questo punto diventata irriconoscibile, da una operazione abbastanza semplice, consistente nel potare, dissodare, strappare le erbacce,  rimpiantare le viti ogni tanto, ed alla fine della stagione vendemmiare, la viticoltura si era trasformata in una serie infinita di applicazioni di sostanze chimiche e maleodoranti. Le tecniche di propagginazione fu abbandonato, a tal proposito alcuni vigneti antichissimi di Pinot noir nella Champagne, appartenenti alla ditta Bollinger, inspiegabilmente sopravvissuti alla fillossera ancora oggi propagati per propagginazione, hanno una certa qualità e profondità di sapore che li distingue dagli altri.
Le enormi importazioni di viti americane, aveva portato con se dal nuovo continente una nuova e vorace crittogama, la peronospora.
La peronospora. Come l’oidio, la peronospora riduceva notevolmente i raccolti ed indeboliva il vino che se ne otteneva. In soli quattro anni, la facoltà di scienze di Bordeaux trovò il modo di prevenirla con la famosa “poltiglia bordolese”, una combinazione di calce e solfato di rame in forma liquida. Nonostante ciò l’ultimo decennio dell’Ottocento fu contraddistinto da interi raccolti rovinati. Per i disonesti si aprivano ottime opportunità, mentre vini che prima erano considerati adatti esclusivamente per l’aceto, o per la distillazione, ora trovavano ottimo mercato. Oltre a annacquare il vino, alcuni facevano vino con l’uva passa, importata soprattutto dalla Grecia e dalla Turchia. Un libro pubblicato a Marsiglia era semplicemente intitolato: “Come fare il vino con l’uva passa”, in sei anni ne furono pubblicati dodici edizioni. Ecco la ricetta: prendete cento chili di uva passa tritata, aggiungete 300 litri di acqua riscaldata a trenta gradi centigradi, lasciate fermentare per dodici giorni. Spremete e avrete trecento litri di vino a dieci  o undici gradi.
Fin dagli inizi del Novecento in Italia già si parlava dell’esigenza di proteggere i vini tipici, vini dalle qualità superiori, In Francia dal 1905 si era parlato di Appellation d’origine controlée, in Italia nel 1902 il sindacato vinicolo Piemontese che comprendeva Camera di Commercio, Comuni, Enti Morali, Province, associazioni ed istituti agrari aveva messo tra i sui scopi quello di tutelare il commercio dei vini pregiati del Piemonte. Nello stesso periodo in Toscana per opera dei Comizi agrari di Siena e Firenze, si era tentato di dare vita ad una associazione Chiantigiana, di produttori di vino chianti.

Il vino italiano ottocentesco.
Il vino per l’Italia occupa una posizione primaria, I greci chiamavano la penisola Terra del vino. Fu lo stesso Garibaldi a convincere gli agricoltori italiani a combattere l’oidio con o zolfo. Gli italiani del 1800 coltivavano la maggior parte delle viti come aveva descritto Plinio. Crescevano in altezza con sostegni vivi, la felicità del contadino ottocentesco era quella di sedersi a riposare con moglie e figli all’ombra della propria vigna, con i grappoli maturi a portata di mano. Goethe nei lunghi peregrinagli italiani aveva descritto i paesaggi fertili italiani, e la compassione verso i contadini italiani, essi diceva “sono completamente alla mercé dei mercanti, che negli anni cattivi prestavano loro il denaro per tirare avanti, ma poi negli anni buoni comprano il loro vino a prezzi ridicoli”. Nel XIV° secolo, Venezia era stata uno dei centri del commercio dei vini, il rinascimento aveva visto il vino in fiaschi toscano esportato in tutta Europa, nel XVIII° secolo il vino italiano apprezzato era il lacrima cristi del Vesuvio. I vini italiani si dividevano in due categorie: quelli delle alberate con sostegni vivi, e quelli delle viti sostenute da pali, che già duemila anni prima indicavano le zone di influenza greca. Erano quest’ultimi pochi vini che gli stranieri ricercavano, erano dolci e molto alcolici, di tradizione greca. Anche la robusta vernaccia Toscana era  molto ricercata. Famiglie toscane come degli Antinori o i banchieri Frescobaldi, commerciavano ed esportavano normalmente anche vino. Vi sono anche fonti che riportano pareri di inglesi; secondo sir Edward Barry, un tempo il vino toscano era molto apprezzato in Inghilterra, ma quello della seconda metà dell’Ottocento aveva perso tutto il suo sapore, e carattere, i fiaschi fiorentini erano importati, ma raramente erano bevuti, erano invece usati per fare Borgogna artificiale, o per dare più leggerezza a un porto pesante. L’Italia aveva migliaia di vini locali, ma raramente il vino era fatto con cura e perizia. I due stati che seguivano scrupolosamente dei metodi di coltura codificati era il Granducato di Toscana e il Regno di Sardegna. I primi tentativi di riforma si ebbero ad opera di Pietro Leopoldo, che era un discendente degli Asburgo, ed un degno successore della stirpe medicea. In toscana vigeva il sistema mezzadrile, ed anche se i proprietari avessero voluto cambiare il sistema, i contadini lo avrebbero considerato come una manovra per privarli del loro antico godimento della terra. Quando le guerre napoleoniche finirono, e la Toscana tornò in mano agli Austriaci, il barone Bettino Ricasoli ereditò la tenuta di Brolio, che allora era immersa nei debiti. I Ricasoli discendevano direttamente dai baroni lombardi dell’undicesimo secolo. Quando il barone si trasferì da Firenze alle sue trascurate terre di famiglia (secondo alcuni per sottrarre la moglie alle tentazioni della società), la riforma della sua proprietà e del suo vino divenne la grande passione della sua vita. Altezzoso ed ascetico egli dedicò tutto se stesso e sua moglie, figli, contadini e vino della regione, all’educazione e alla riforma. Importò innumerevoli vitigni diversi, il chianti classico emerse dai suoi esperimenti e all’ottimizzazione ed armonizzazione dei vecchi vitigni. Ricasoli dichiarò che il chianti riceve buona parte del suo bouquet dal sangioveto, dal canaiolo prende una dolcezza che ne modera l’asprezza del sangioveto, la malvasia bianca tende ad accentuarne il sapore, allo stesso tempo rendendo più fresco il vino e più adatto all’uso quotidiano. Ricasoli non ammetteva il trebbiano, una varietà leggermente aspra, neutra e molto amata dai produttori poiché molto produttiva. Nel 1848 sua moglie morì e nel dolore perse ogni interesse per le sue terre e per le riforme in atto. Egli aveva scoperto la nuova vocazione politica, cosi nel 1850 dopo l’arrivo dell’oidio, i mezzadri abbandonarono in massa le terre, si trasferirono in città o andarono in America. Il Risorgimento culminò nel 1860, il viticoltore Ricasoli che nel frattempo aveva incorporato circa trecento piccole fattorie abbandonate, era diventato il dittatore della Toscana, ed era deciso ad unirsi con i Cavour per unificare la toscana allo stato del Piemonte. In maggio Garibaldi salpò da Genova, con le sue camice rosse alla volta della Sicilia, per mettere fine al regno Borbonico. A giugno Garibaldi era padrone della Sicilia e in settembre di Napoli. La metà meridionale dell’Italia era unita al regno di Sardegna e la Toscana votò per l’unione seguendo le direttive di Ricasoli. Cavour mori e Ricasoli divenne primo ministro della nuova Italia. Il governo italiano alle prese con il problema dell’oidio, e poi della fillossera, non tardò a creare degli Istituti per la cura e la sperimentazone di nuove tecniche viticole.

Novecento.
L’esempio del nuovo mondo.
Le varie congiunture economiche, l’ultima guerra, il cambiamento del gusto dei giovani e delle economie nazionali, hanno cambiato radicalmente gli standard di vinificazione attuali, i principi di autenticità, e perfino il nostro modo di gustare ed apprezzare il vino. In Italia, tra le economie sommerse vi era anche quella del vino, che lo faceva circolare del “contadino” ma che produceva anche ignobili intrugli fatti passare sotto nomi rispettabili. Oltre a ciò vi erano i vigneti del nuovo mondo, dall’Australia, California, Nuova Zelanda, Sudafrica, Argentina; arrivavano in Europa vini all’altezza dei migliori vini Europei. Negli anni Trenta, in California usavano metodi estremamente primitivi, i primi viticoltori trattavano il vino con metodi drastici, l’uva appena colta veniva spruzzata con valanghe di zolfo, finché alla fine era completamente candeggiata; quando un vino di fermentazione raggiungeva una temperatura pericolosa, l’unico rimedio era quello di buttarci dentro grossi blocchi di ghiaccio per raffreddarlo, e tutte queste operazioni erano fatte nella massima segretezza. Ai primi del Novecento la Napa Valley aveva prodotto vini che vincevano regolarmente premi in Europa, i vecchi vigneti di cabernet che erano sopravvissuti  all’invasione delle varietà ordinarie producevano ancora dell’ottimo vino, ma negli anni trenta gli stessi americani continuavano a disprezzare il proprio vino. Il segreto era nella temperatura e la differenza tra i vigneti Europei e quelli del nuovo mondo era legata al clima. Il famoso clima mediterraneo fresco e collinare è quello che ci vuole per avere una naturale produzione di ottimo vino. In America la scelta di vitigni adatti alle condizioni climatiche fu la grande impresa del dipartimento di viticoltura ed enologia dell’università della California, dove Albert Winkler enunciò il principio della “sommatoria del calore”, consistente nel sommare le temperature medie di tutti i giorni della stagione vegetativa in cui il termometro supera i dieci gradi centigradi. A dieci gradi la vita è attiva, quindi la sommatoria del calore esprime le ore di attività della pianta. Questa misura permette di fare paragoni diretti fra i vigneti di tutto il mondo. Nella Napa Valley i valori variano tra duemilatrecentoquaranta e duemilaseicentodieci, perciò sarà il cabernet a crescere perfettamente in questa regione. Quste previsioni diventavano difficilissime nelle catene costiere dove tutto dipendeva dall’aria fresca dell’oceano. La rinascita vinicola della Napa Valley venne nel 1966, ad opera dell’azienda Robert Mondavi. Il suo nuovo impianto dai grandi cilindri in acciaio inossidabile con temperatura controllata  fino all’ultimo grado da camice di fluidi refrigeranti.

Erano investimenti notevole, e lanciavano ai grandi produttori la sfida della tecnologia. I vitigni che si prestavano meglio alle nuove tecniche di produzione era lo Chardonney, prodotto nei climi freschi francesi, che divenne il vino preferito dalla nazione, per la prima volta nella storia i californiani bevevano più vino che liquori. Gli americani che avevano fatto la guerra in Europa rivolgevano ora il loro interesse al vino. Sulla scia dei numerosi film di Holliwood, gli americani comunque non bevevano vino, lo assaporavano con un certo senso snobistico, per loro vi era un solo vino giusto, con la sua temperatura ed una sola osservazione brillante da rivolgere all’impacciato sommelier.

Il dopoguerra: la risposta della Toscana.
Dopo la fine della guerra e della nuova ondata fillosserica il settore vinicolo toscano era in ginocchio. L’incremento demografico, le riforme agrarie e gli interventi di bonifica effettuati per incentivare la formazione della piccola proprietà contadina, determinarono un sostanziale mantenimento delle superfici coltivabile. Negli anni Cinquanta cominciarono le prime lotte sindacali dei mezzadri, e prese avvio il processo che portò ad un progressivo, inarrestabile abbandono da parte dei coloni dei prodotti dei poderi. Non ebbero praticamente nessun effetto le agevolazioni creditizie e fiscali e le norme sulla prelazione a favore dei coltivatori diretti introdotte tra il 1965 ed il 1971 dal cosiddetto ‘lodo De Gasperi’. La legge n°765 del 15.09.1064 proibì la stipula di nuovi contratti mezzadrili e, il ‘lodo Restivo’ ne mitigò la rigidità e sancì la fine della millenaria mezzadria. L'abbandono dei poderi da parte dei mezzadri fu dovuto a profondi cambiamenti avvenuti nel tessuto sociale della nostra regione, quali ad esempio lo sviluppo dell’industria e del terziario, che offrivano opportunità convenienti all’attività agricola. La spinta verso i centri urbani venne determinata anche dalle possibilità offerte dall’istruzione, con la prospettiva possibile di una elevazione sociale, economica e sociale. La famiglia contadina si frazionò e con essa la tradizionale struttura patriarcale. Il nuovo singolo nucleo doveva liberarsi dell’incertezza salariale, esigeva un profitto fisso mensile per far fronte ai nuovi acquisti rateali di beni mobili utili per la famiglia. Veniva inoltre considerato con attenzione anche il più favorevole trattamento previdenziale offerto dal lavoro dipendente. Dal 1951 al 1971 il numero di attivi in agricoltura passò da una densità di 27 a 6 unità per Kmq. Le operazione colturali ora erano supportate dalla nuova meccanizzazione agricola, gli animali da lavoro furono utilizzati esclusivamente per l’allevamento, mentre le piccole prese e terrazzamenti di difficile transitabilità con i nuovi mezzi meccanici furono rinnovati ed ampliati. La realtà di fine anni Cinquanta era caratterizzata da una notevole dispersione e frammentazione fondiaria, che ostacolava la costituzione di vigneti di superficie sufficientemente ampia per rendere agevole ed economicamente conveniente l’impiego delle macchine e l’impiego di moderne attrezzature di cantina. In più nei  fondi condotti a mezzadria mancava la cultura imprenditoriale, molti dei proprietari avevano una scarsa preparazione ed erano privi di qualsiasi senso innovativo.

Nelle aree collinare toscane la viticoltura era realizzata con ciglionamenti e terrazzamenti secondo la natura e la pendenza del terreno o la disponibilità di pietrame. Tali sistemazioni le cui origini  risalgono alla fine del Settecento, costituivano ammirevoli opere di ingegneria agraria di grande efficacia per la conservazione del territorio e la regimazione delle acque superficiali e profonde, in più erano e sono elemento caratterizzante del paesaggio collinare toscano. Richiedevano peraltro notevoli quantità di lavoro manuale rese possibili esclusivamente dalla conduzione agricola mezzadrile.

Generalmente le forme colturali adottate nei terrazzamenti del chianti erano costituiti da filari di acero o testucchio,  posti a due, tre metri, che sostenevano i tralci della vite. Le varietà dei vitigni era notevole: Malvasia nera, Canaiolo nero, Prugnolo gentile, Mammolo, Morellino di scansano, Colorino, Foglia tonda, ciliegio, Mazzere, Trebbiano, Malvasia, Canaiolo bianco, Greco, Vermentino bianco,  Moscato bianco, Vernaccia di San Gimignano. Vi erno inoltre numerose varietà locali talvolta di origine molto antica, che erano state conservate e trasmesse attraverso i tempi nei tradizionali poderi mezzadrili.
La produzione vinicola era divisa in due grandi fasce. Una era basata da vini eterogenei, poco tipicizzati, destinati al consumo locale o diretto del produttore, l’altro da vini tradizionalmente molto apprezzati nei mercati interni ed esterni, quali il chianti, il vino nobile di Montapulciano, il Brunello, la Vernaccia di San Gimignano.
La fillossera continuava ad infestare molte delle campagne toscane, mentre il reimpianto di nuove vigne non era per i proprietari economicamente vantaggiosa. Vi erano anche frodi, industrie vinicole anche con buone reputazioni che tagliavano o manomettevano chimicamente il vino. Oltre a ciò vi era da parte del governo una ingiustificata pressione fiscale e i giovani stavano assaporando bevande diverse dal vino. Nel 1957 l’accademia dei Georgofili di Firenze in occasione dei festeggiamenti del proprio bicentenario, organizzò un convegno per discutere le cause della crisi della viticoltura. Emerse che il degrado dei fabbricati colonici, le insufficienti vie di comunicazione e dei servizi igienici, il basso livello di retribuzione del lavoro agricolo, avevano causato lo spopolamento delle campagne toscane ed una diminuzione della produzione di vino rispetto al 1900 del 50%.
Di fronte a questa crisi molti proprietari non seppero trovare efficienti rimedi. La ripresa doveva arrivare intorno agli anni settanta, in alcune zone del chianti pregevoli sotto l’aspetto paesaggistico, storico e culturale, poderi ed intere fattorie vennero comprati  da stranieri, attirati dalla bellezza della natura. Questo passaggio delle antiche proprietà fondiarie ad una categoria di persone caratterizzate da mentalità e preparazione manageriale moderne, costituì un importante fattore di rinnovamento e di innovazione tecnica e strutturale soprattutto nel settore della viticoltura.
A partire dagli anni cinquanta iniziò un profondo rinnovamento della viticoltura toscana, che passò da coltura consociata a coltura specializzata, in modo da sfruttare l’impiego di macchine per la lavorazione del terreno, per la concimazione, per i trattamenti fitosanitari, per il trasporto veloce ed efficace dell’uva alle cantine, per la potatura e la vendemmia. Furono costituiti vigneti di ampia superficie, realizzati su superfici di terreni interessati da profondi rimodellamenti con pesanti macchinari.  Questi scassi rendevano la superficie fertile e meno impervia, furono abbandonate le coltivazioni delle viti di montagna e del fondovalle, dove in passato la viticoltura era stata spinta per soddisfare le esigenze dell’autoconsumo. I nuovi vigneti furono modellati adottando distanze tra i filari di circa 3 metri, palature di cemento e fili di ferro. Il rinnovamento comportò anche una sensibile modifica dell’assortimento varietale, con una riduzione del numero di vitigni ed il conseguente abbandono di numerose varietà locali, le quali furono esposte al pericolo di una totale scomparsa, aggravando un processo di erosione genetica e di riduzione della biodiversità che si era già manifestata nella ricostituzione viticola postfillosserica. Il vivaismo viticolo toscano si trovò anche ipreparato a rispondere alle richieste dell’elevata quantità di barbatelle necessarie per i nuovi vigneti, questo contribuì a favorire l’introduzione da altre regioni di materiale poco controllato spesso scadente anche sotto il profilo genetico. Il CNR (Consiglio Nazionale della Ricerca), promosse una intensa attività sperimentale, svolta soprattutto nel settore della meccanizzazione. Fecero ben presto la comparsa nei nuovi vigneti le prime macchine per la potatura, le vendemmiatrici, forbici pneumatiche, legatrici. I risultati che derivarono furono pessimi, mentre l’introduzione di monoculture vinicole cambiarono radicalmente l’estetica dei paesaggi toscani.

Nel settore enotecnico, fecero la loro comparsa anche le cantine sociali; agli inizi degli anni ottanta erano in Toscana  33, esse svolsero un importante ruolo come fattore di evoluzione tecnica, ma anche nell’aggiornamento e diffusione di moderne conoscenze di tecnica vinicola.
Importanti innovazioni furono introdotte nel  miglioramento delle condizioni igieniche dei locali e delle attrezzature di cantina. Furono impiegati nuovi materiali nelle attrezzature enologiche come vetroresine, acciai inossidabili. Furono introdotti macchinari per l’imbottigliamento ad elevata automazione, per il condizionamento tecnico dei locali e dei contenitori per il vino. Sempre più ampio divenne l’uso di lieviti selezionati, per il controllo della fermentazione. In definitiva la vecchia cantina del proprietario o del mezzadro, fu cancellata e sostituita dalla attrezzatissima cantina sociale, dirette da personale specializzato in enologia. La produzione venne collocata sul mercato nazionale ed internazionale mediante sistemi razionali di commercializzazione.

Le politiche comunitarie.
Le politiche comunitarie hanno regolato la produzione dei vini. L’introduzione nel 1963 della Denominazione di origine dei vini ha contribuito alla tutela ed alla valorizzazione delle produzioni. Il rinnovamento viticolo è stato favorito anche dagli interventi finanziari supportato dalla CEE. Le nuove normative intendevano evitare che vini di scarsa qualità, con caratteristiche organolettiche non tipiche o prodotti in aree viticole non precisate fossero commercializzati col nome di vini pregiati. Il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata ebbe come prima conseguenza l’aumento dei prezzi di mercato dei vini riconosciuti. In un primo momento alcuni vini riconosciuti non ottennero le produzioni di uva per ettaro ammesse dai disciplinari DOC. Interventi finanziari pubblici nel periodo 1975-83, furono erogati per aumentare la produzione vinicola. Sotto questa spinta furono estirpati 14.000 ettari di vigneti sia specializzati che consociati anche relativamente giovani, e reimpiantati 12.000 ettari di nuovi vigneti specializzati. Gli interventi degli enti pubblici svolsero un ruolo di notevole importanza per il rinnovamento della viticoltura Toscana, non mancarono tuttavia carenze di natura tecnica che portarono a scassi troppo profondi che in certi casi hanno compromesso la stabilità dei versanti collinari o l’affioramento di strati di terreno sterile, diffusione di materiale di piantagione di origine non controllata sotto il profilo genetico e sanitario, scelta dei portinnesti non diversificati in rapporto alle specifiche situazioni tecnico-agrarie, applicazione di distanze e di densità di piantagione determinate dall’esigenza della meccanizzazione che hanno introdotto nella vite un equilibrio vegeto-produttivo precario.
Il rinnovo dei vigneti è stato accompagnato anche da un progressivo e notevole cambiamento della tipologia enologica, questo orientamento ha gradualmente portato ad un allontanamento dei tradizionali vini dalle loro originarie caratteristiche organolettiche. Nel chianti è difficile trovare vini di “pronta beva” prodotti in passato, sono stati creati vini nuovi, utilizzando vitigni di uva quali “Cabernet, Merlot, Pinot, Sauvignon, Chardonnay, Riesling”. Alla fine degli anni settanta si sviluppò in Toscana un certo interesse verso la produzione di vini bianchi freschi, leggeri, poco colorati, frizzanti, adatti ad incontrare il gusto dei giovani, l’emblema dei quali fu il Galestro. La Toscana si è inserita anche nella produzione del “vino novello”, iniziata a Cuneo con il “Vinot” e a San Casciano con il “San Giocondo”, e si è sviluppata rapidamente fino a raggiungere verso gli anni Novanta centoventi etichette.

L’ultimo decennio.
Gli anni Novanta videro l’orientamento dei mercati verso la richiesta di prodotti di elevata qualità, nel contempo nei paesi quali Italia, Francia, Spagna, Germania, si registrava una sensibile diminuzione del consumo di vino pro-capite determinato dal cambiamento degli stili di vita e dal diffondersi delle diete salutistiche che penalizzavano il vino per il suo elevato livello calorico. All’interno della UE, il consumo dei vini pregiati è aumentato del 18%, mentre quello di tutti gli altri vini è diminuito del 28%. Dal boccale o bicchiere (gotto) delle bettole, il vino è passato alla bottiglia vestita di sgargianti colori, servito in sofisticati bicchieri, dalla forma particolare, studiati per esaltarne il colore e gli aromi. È stato accertato che un moderato consumo di vino riduce il rischio di cardiopatie, di ischemie, di alcune forme tumorali, del morbo di Alzheimer, potenzia la memoria, rallenta i processi di invecchiamento, esercita azione antibatterica ed antiossidante. Notevoli sono le innovazioni di carattere tecnico. I nuovi vigneti sono piantati elevando la densità di piantagione, sono utilizzati terreni drenati al fine di conseguire il massimo controllo delle acque profonde e superficiali. Allo scasso viene preferito la lavorazione del terreno per il nuovo impianto, medianti escavatori, utilizzando il pietrame trovato in profondità per costruire fosse di drenaggio, o muri a secco per interrompere il declivio delle acque superficiali. Spesso è anche curata l’estetica del vigneto, preferendo l’uso dell’armatura di sostegni in legno, oppure impiegando pali in cemento di colore marrone e talvolta piantando all’inizio dei filari cespugli di rosa. L’inerbimento del terreno in sostituzione delle lavorazioni pesanti o dei diserbanti chimici, hanno apportato maggiore equilibrio della fertilità del suolo, sulla difesa dall’erosione, sullo stato sanitario delle piante, sulla stessa qualità dell’uva. Oltre a questo la concimazione più equilibrata e la difesa fitosanitaria attuata secondo criteri della massima salvaguardia possibile sull’ambiente hanno prodotto uve di elevata qualità in Toscana.
 Negli ultimissimi anni il vino è stato inserito come elemento essenziale nell’evoluzione culturale. Il nostro patrimonio storico, artistico e culturale non può fare a meno dell’enologia come elemento indispensabile nella conservazione e valorizzazione del territorio toscano. Nei primi anni del 2000 in Toscana abbiamo avuto circa 10 milioni di turisti all’anno interessati a strutture agrituristiche attrezzate per l’enoturismo. Nel 1996 la legge n° 69 del 13.8.1996, regolava l’introduzione in Italia di mappe delle strade del vino.
Sempre negli ultimi anni il regolamento CEE n° 822/87, vieta la costituzione di nuovi vigneti, e regola l’estirpazione di vecchi vigneti e la ricostruzione secondo nuovi criteri, mediante l’acquisizione dei diritti di reimpianto.
 

Da: http://www.tuscanfarm.com/corso_di_viticoltura.htm
Morfologia della vite.

Nella vite si distinguono vari apparati: quello radicale, il fusto i tralci  e poi gemme, foglie, fiori e  frutti. Le radici delle viti normalmente coltivate non provengono da un seme ma da una porzione di ramo (tralcio) costretto a radicare in vivaio. L'estremità della radice è ricoperta dalla cuffia che protegge questa zona delicata, subito dietro si trovano i peli radicali che assorbono le sostanze. Questa zona è molto breve tutto il resto è struttura di trasporto ancoraggio e immagazzinamento. Il fusto è costituito nella parte bassa da un ceppo che si divide in branche e tralci che sono di struttura lianosa e costituiti da nodi e internodi. Solitamente sul primo e secondo nodo dei tralci formati nell'anno in corso, si trovano i grappoli, sugli altri si trovano dei filamenti. Le gemme si sviluppano fra il picciolo delle foglie e il tralcio (ascella) e si distinguono fra pronte e ibernanti. Le pronte sviluppano tralci o grappoli nello stesso anno in cui si sono formate, i quali  possono essere dannosi o di scarsa utilità. Le ibernanti invece, lavorano tutto l'anno per formare il tralcio e i grappoli in miniatura che si svilupperanno l'anno successivo. La foglia della vite è utile per riconoscere le diverse varietà. La forma infatti può ricordare un rene, un cuneo, un pentagono ecc. con piccole differenze fra le varie specie e fra i cloni (clone=piccola variazione genetica all'interno della stessa specie) La lamina fogliare è sede della fotosintesi clorofilliana e quindi della produzione degli zuccheri, la pagina inferiore ospita delle piccole aperture (gli stomi) che servono per gli scambi gassosi. La foglia è inserita sul tralcio per mezzo di un picciolo, al sopraggiungere dell'autunno, prima della sua caduta, la pianta convoglia nella foglia le sostanze da espellere. Per l'uva da vino il fiore è generalmente ermafrodita, cioè porta tutti e due i sessi; quello femminile (il gineceo) che contiene gli ovuli, quello maschile (l'androceo) composto da cinque stami che distribuiscono il polline. Il frutto di questa infiorescenza è un grappolo composto da acini e raspo. Il grappolo può avere forma più o meno cilindrica o a piramide, da esso si dipartono una , nessuna o due appendici dette ali. L'acino o bacca è rivestito dalla buccia che contiene molte sostanze utili al vino, la polpa la si può dividere in tre livelli: quello mediano è il più ricco di zuccheri, ed è il primo da cui fuoriesce il succo durante la pigiatura, il più esterno ha una concentrazione media, il centrale è il più povero e contiene anche i semi solitamente quattro i quali contengono sostanze e oli che possono dare cattivi odori al vino, soprattutto se i vinaccioli vengono rotti. Come tutti i frutti, l'acino d'uva è in realtà una 'confezione' che serve a proteggere i semi (i vinaccioli) fino alla fine del loro sviluppo. Esternamente troviamo la buccia costituita da una parte esterna, la cuticola, e una parte interna. Qui si trovano gran parte delle sostanze coloranti e aromatiche. 'Sfogliando' l'acino si arriva alla polpa, composta dal mesocarpo, succoso e carnoso, e dall'endocarpo, esile e molle che contiene i vinaccioli. I vinaccioli sono ricchi di flavanoidi di natura fenolica (importanti per il colore nel vino). Sono anche ricchi di tannini ma non vanno schiacciati, perché fuoriuscirebbe troppo tannino e soprattutto una sostanza oleosa sgradevole per il vino. La polpa contiene le sostanze che finiranno nel mosto: è composta da acqua per il 70-80%, da zuccheri, da acidi, da composti azotati, vitamine, minerali e sostanze coloranti. Nella parte più interna della polpa, vicino ai vinaccioli c'è meno zucchero e meno acidità, nella parte media si ha una media acidità e molti zuccheri e nella parte più esterna si hanno medi zuccheri e pochi acidi.

Da: http://www.italcuisine.it/liguria/enologia/malattie/malvite.htm
Malattie della vite e dei vini
Le malattie della vite non sono solo di origine parassitaria, ma comprendono tutte quelle alterazioni degli organi della pianta dovute ad avversità atmosferiche e a carenze alimentari che provocano disturbi fisiologici manifesti, alterazioni che vengono più propriamente chiamate ampelopatie. L' instaurarsi delle malattie è totalmente legato alle condizioni che favoriscono lo sviluppo delle piante ed è per questo che la loro diffusione è associata a diversi fattori: il microclima che circonda la pianta può permettere lo sviluppo di determinate fisiopati così come il terreno, l' esposizione, la forma di allevamento, le varie fasi vegetative e i vari organi della pianta possono facilitare o meno un determinato patogeno o parassita.
ACINELLATURA
Alterazione consistente nella produzione di acini che non raggiungono le dimensioni tipiche ma, nel grappolo, appaiono talora più grossi del diametro normale taluni inferiori o molto piccoli. Di solito l' alterazione assume maggiore valore negativo per la produzione.
ALTICHE
Questa malattia deriva da ALTICINI, una famiglia di insetti Crisomelidi. Essi provocano danno in quanto schelettrizzano le foglie. La lotta contro gli alticini si attua in genere con irrorazioni arsenicali.
FILLOSSERA
La malattia è provocata da un afide (Phylloxera vastatrix) che sui vitigni europei attacca solo le radici fino a portare la pianta alla morte. I danni sono gravissimi, in quanto si manifesta il deperimento della pianta quando ormai l' attacco alle radici è allo stadio finale, e la vite muore. L' unico mezzo di lotta consiste nell' innestare le viti europee su piede americano, che resiste meglio alla malattia e non presenta degenerazioni sulle radici.
MUFFA GRIGIA O BOTRITE
Il fungo (Sclerotinia fukeliana o Botrytis cinerea) colpisce soprattutto i grappoli, specie in alcuni ambienti e su particolari formedi allevamento (tipo tendone) dove è difficile la circolazione dell' aria; adottando, specie nei climi umidi, vitigni con grappoli spargoli e con una notevole resistenza della buccia (es. Pinot e Tokai); somministrando razionali concimazioni in cui abbondi il potassio e non ci sia un eccesso di azoto (quindi poco letame). I prodotti usati per la lotta chimica sono esteri fosforici sistemici come il benlate, il benonyl che si possono mescolare a trattamenti contro la peronospora e l' oidio.
OIDIO
Dal greco uovo genere di funghi imperfetti iscritto alle famiglie delle Moniliali è la più antica fra le più gravi malattie crittogamiche che hanno colpito i vigneti europei nella metà del secolo scorso. Questa malattia è di origine americana. Tutti gli organi verdi della pianta, grappoli, foglie,germogli sono colpiti dal parassita fungino che è in grado di propagarsi da quando la temperatura dell' aria inizia a salire ( 4°-5°) e sin verso i 25°. L' umidità favorisce lo sviluppo. L' oidio si combatte con irrorazioni di zolfo in polvere puro o rameato. Spesso i trattamenti vengono fatti contemporaneamente a quelli contro la Peronospora, mescolando gli zolfi bagnabili con solfato di rame o sali di zinco. Dato che lo oidio colpisce maggiormente il grappolo la lotta contro di esso è di primaria importanza in viticolture.
PERONOSPORA O PLASMOPARA VITICOLA
Genere di funghi Ficomiceti ascritto alla famiglia delle peronosporacee. Vi appartengono diverse specie parassite di piante superiori, delle quali la più diffusa e dannosa è la plasmopara della vite. La specie è originaria dell' America del Nord, dove, si ritiene fosse un parassita abituale delle piante selvatiche di vite. La sua prima comparsa in Europa fu msegnaqlata in Francia nel 1878. La presenza del parassita è svelata dalla comparsa sulla foglia di zone translucide dette "macchie d' olio". Il micelio (fungo) si insinua nella parte inferiore della foglia e in mezzo al grappolo, formando dentro masse di ife; la sua "produzione" è rapidissima. Il danno è ingente e la produzione di zoospore è elevatissimo, e sono facilmente trasportabili dal vento. Il danno al frutto vero e proprio si può notare dal fatto che i chicchi d' uva rinsecchiscano totalmente. La lotta contro questo tipo di fungo è attuabile solo quando il parassita si trova all' esterno della pianta, perciò si pratica irrorando le foglie con anticrittogamici a base di rame.
PIRALIDI
Vasta famiglia di insetti iscritti all' ordine dei LEPIDOTTERI. Essa è particolarmente diffusa nei paesi a clima caldo. I piralidi sono farfalle notturne e per la massima parte dannose, perchè allo stadio larvale si evolvono a spese di piante di grande interesse e valore agrario, come ad esempio la vite. Sono farfalle di dimensioni medio piccole, di costituzione gracile, ali e zampe molto ampie e lunghe rispetto al corpo.
RONCET
O arricciamento della vite. Malattia della vite dovuta ad una infezione o ad un complesso di infezioni da virus e trasmessa per talea e col terreno. Questa malattia a cui sono soggetti in particolar modo gli ibridi si manifesta con aspetto cespuglioso delle piante che si presentano con ramificazioni dense e brevi per il raccorciamento degli internodi e per lo sviluppo di molte ramificazioni secondarie. Le foglie sono piccole e deformate da numerose frastagliature. Tutta la pianta giunge rapidamente ad essiccarsi completamente.
TIGNOLA
Da POLYCHROSIS BOTRANA si tratta di un insetto lepidottero che compie 3 generazioni annuali e sverma allo stato di crisalide, le femmine depongono cica 200 uova ciascuna 2 o 3 giorni dopo l'accoppiamento e le depositanosui grappoli florali, sui tralci e sulle foglie. Le larve emettono gli sericei, si tessono una specie di bozzolo e si nutrono divorando i boccioli dei fiori. I danni causati alla vite sono ingentissimi nonostante le tignole abbia molti nemici naturali quali funghi, imenotteri, ditteri, parassiti. L'uomo difende la vite con la lotta chimica con arseniato di piombo o di calcio, fluorosilicato di bario e cloroderivati organici molto tossici e quindi devono essere usati con molta prudenza.

Un'ultima riflessione.

La vite è una pianta rampicante della famiglia delle ampelidacee o vitacee che a sua volta appartiene dell'ordine dei rhamnales.
      Il genere Vitis delle ampelidacee è quello che interessa dal punto di vista della viticoltura, poiché la legge impone che sia la specie Vitis Vinifera il solo ceppo utilizzabile per la produzione di vino.
       Le due sottospecie di Vitis Vinifera sono:
· Vitis Sativa, quella coltivata e utilizzata per vinificare
· Vitis Silvestris, quella selvatica, dei boschi
La pianta della vite ha due cicli biologici.

Il ciclo vitale riguarda le varie età della pianta:
· giovane, fase di improduttività dal 1° al 3° anno
· adulta, fase di normalità produttiva distinta in
· crescente, dal 4° al 5° anno
· costante, dal 6° al 20-25° anno
· vecchia, oltre i 30 anni (anche se in realtà le viti con piede-franco possono risultare costanti addirittura fino ai 100 anni)
Il ciclo annuale di una vite è rappresentato dalle fasi che si succedono ogni anno e si divide in tre sottocicli (fasi fenologiche):
· Attività radicale
· pianto, durante il periodo di dormienza la linfa vitale va dalle radici alle foglie. Dai tralci escono gocce di linfa (pianto della vite).
· Vegetativo
· germogliamento, in aprile
· accrescimento dei germogli , sviluppo dei rami normali e di quelli anticipati (femminelle), va da aprile ad agosto
· agostamento, da agosto a novembre, maturazione del germoglio che da verde diventa marrone
· riposo, dalla defogliazione di dicembre fino al germogliamento di aprile
· Riproduttivo
· comparsa grappolini, con sviluppo e formazione dei fiori
· fioritura, nella prima metà di giugno apertura dei fiori (antési) e fecondazione con il polline (unione)
· allegagione verso la metà di giugno passaggio dal fiore al frutto
· ingrossamento, fino alla metà di agosto (dipende dalle varietà) accrescimento degli acini
· invaiatura verso la metà di agosto colorazione delle bacche (in questa fase si può procedere all'eliminazione dei grappoli in eccesso per prediligere la qualità rispetto alla quantità)
· maturazione, crescita del rapporto zuccheri/acidi all'interno delle bacche fino a settembre-ottobre

      La vite è purtroppo soggetta ad alcune avversità che possono influire negativamente sulla produzione finale. Queste avversità si possono così classificare:
· non parassitarie, sono il gelo invernale, le gelate primaverili, la grandine, la carenza e/o l'eccesso di minerali, siccità o eccesso idrico (asfissia radicale), erbicidi, ecc.;
· parassitarie, con malattie provocate da
· virus (arricciamento, accartocciamento fogliare, suberosi corticale, legno riccio)
· funghi (peronospora, mal dell'esca, oidio)
· animali (ragnetti, tignole, fillossera, nematodi)
Per un vino di qualità la scelta del vitigno è per forza legata al territorio nel quale si produrrà il vino stesso: i vini di maggior successo sono quelli prodotti con uve che si sono perfettamente integrate nell'ambiente pedoclimatico.
       La legislazione in materia impone infatti dei disciplinari dai quali non si può prescindere, perciò per produrre sotto una denominazione è obbligatorio impiantare i vitigni autorizzati e/o raccomandati nella misura ammessa dai regolamenti e soprattutto indirizzarsi verso le cultivar autoctone: la tendenza attuale è quella di far ricorso ai cosiddetti vitigni internazionali, spesso più facili da impiantare e più costanti nella produzione, ma i vitigni qualitativi italiani sono il vero punto di riferimento per una vitivinicoltura di qualità.
      La scelta dei cloni migliori dovrà portare a una produzione bassa, a grappoli più piccoli e compatti e ad una maggiore concentrazione di sostanze da estrarre durante la vinificazione.
      Intorno alla fine del 1800 la Vitis Labrusca giunta dall'America nascondeva un grave malanno per i vitigni: la fillossera, un parassita che attaccava le radici e lentamente distruggeva la specie europea.
Si verificò una catastrofe ambientale e morì la quasi totalità dei vigneti.
      I tentitativi di arginare il fenomeno si rivelarono un insuccesso dopo l'altro, finché si cominciò a reimpiantare i vitigni adottando la tecnica dell'innesto di marza autoctona europea (la marza è una porzione di tralcio) su portainnesti provenienti dall'America, perché la fillossera non sembra gradire le radici americane.
      Restano comunque alcuni pregiati vitigni autoctoni come il Nebbiolo e la Barbera che si sono salvati soprattutto in alta quota o vicino alle zone sabbiose dove non prolifera la fillossera. Attualmente l'unico paese al mondo "piede-franco", cioè totalmente autoctono, è il Cile.
Per la propagazione delle barbatelle di vite si utilizza la tecnica dell'innesto. Gli elementi sono il portainnesto o piede, cioè la porzione della pianta provvista di apparato radicale, e poi la marza, una porzione di tralcio con una o più gemme, che si salda all'innesto.
I metodi di innesto più conosciuti sono due:
· a doppio spacco inglese (ad omega), utilizzato nell'Italia del Centro/Nord; si esegue al tavolo;
· alla maiorchina (a gemma) utilizzato soprattutto nell'Italia meridionale e insulare; si esegue direttamente in campo
 Per la scelta del vitigno occorre effettuare uno studio delle caratteristiche ambientali per individuare anche il portainnesto migliore, nel senso che dovrà resistere e adattarsi al meglio a quelle condizioni e non altre, come umidità, siccità, calore, freddo, vento, ecc.
Allo stesso tempo sarà molto importante la scelta della marza perché risulti fruttifera e sana.
Si definisce:
· selezione clonale la generazione di un clone per via vegetativa,
· selezione massale la creazione di una serie di esemplari dalle migliore piante di un vigneto,
· selezione individuale la moltiplicazione dei migliori singoli vitigni.
Situazione geografica-orografica
di Angelo Petracci

      La vite dà uve migliori in collina piuttosto che in pianura: l'inclinazione del suolo, detta giacitura, assicura un superiore drenaggio, un maggiore impatto dei raggi del sole e conseguentemente una maggiore attività vegetativa e una migliore maturazione dei frutti. Più si procede verso nord, più dovrà aumentare la pendenza.
      In pianura l'esposizione è minore in quanto ripartita su una superficie più estesa, sono più frequenti le gelate primaverili, assai pericolose in quanto la pianta comincia a germogliare.
      A parità di latitudine e di giacitura conta poi l'esposizione: i vigneti orientati a sud godono di una maggiore esposizione al sole e quindi tale condizione dovrà essere ricercata soprattutto nelle zone nordiche.
      Nella scelta della posizione del vigneto va poi tenuto conto del tipo di vitigno: tanto più il clima è freddo tanto più verranno scelte uve a maturazione precoce.
      Altro elemento che condiziona il clima locale è dato dalla presenza di montagne, foreste, fiumi e laghi che proteggono le vigne dai venti freddi, assicurano un serbatoio di umidità durante la stagione calda e svolgono una importante azione termoregolatrice.

      La vite si adatta a qualsiasi tipo di terreno ma lo stesso vitigno non dà uve uguali se coltivato in terreni dalle caratteristiche differenti.
      Il suolo è costituito da un sottile strato coltivabile influenzabile dalle culture dell'uomo, e da una parte sottostante le cui caratteristiche sono date dalla conformazione geologica originaria. E' qui che la pianta della vite affonda le sue radici principali e si influenza il carattere del vino.
      Le caratteristiche del sottosuolo sono importanti in primo luogo per il drenaggio che assicurano alla pianta e per i sali minerali in esso contenuti: il terreno ciottoloso-permeabile assicura drenaggio, quindi buona maturazione delle uve (vini ad alta gradazione, fini ed intensamente profumati). Inoltre i ciottoli, poco fertili, obbligano la pianta ad affondare nel sottosuolo le radici e quindi il vino sarà ricco di estratti minerali. Se i ciottoli sono di colore bianco riflettono sulla pianta i raggi solari, i ciottoli scuri accumulano invece il calore e lo rilasciano di notte permettendo un maturazione a temperature senza eccessivi sbalzi.
      Da non trascurare è il grado di acidità del terreno: in Europa i vini migliori provengono da terreni calcarei e alcalini mentre in California provengono da terreni neutri o acidi.
      E' importante anche il colore del suolo:
- suoli di colore scuro si riscaldano e favoriscono la maturazione del frutto; - quelli chiari sono più freddi, ritardano la maturazione e quindi favoriscono vini di maggiore acidità.

In sostanza la natura del terreno influisce sulle caratteristiche del vino:
§ i terreni sabbiosi daranno vini scarichi di colore e di estratto ma delicati e fini;
§ i terreni calcarei generano vini ricchi di alcol e profumi
§ i terreni ciottolosi danno vita a vini alcolici e di elevata qualità
§ i terreni un po' argillosi portano a vini longevi, ricchi di estratto e acidità
Dopo la scelta del terreno e del vitigno in base al clima e all'orografia si esegue lo scasso del terreno: si tracciano quindi i filari, gli interfilari e le capezzagne (strade di accesso in terra battuta lungo le testate dei campi) e si sistemano i tutori e i fili di ferro su cui appoggerà la vite.
      In collina sono utilizzate le sistemazioni a girappoggio o traverso, cioé filari che sono paralleli alla cima e frenano il dilavamento; se la pendenza è considerevole (es: Cinque Terre, Valtellina) si può ricorrere ai terrazzamenti, in caso di pendenze meno forti (minori del 20%) si può scegliere la sistemazione a ritocchino che segue in modo perpendicolare la linea da monte a valle.
Ognuna di queste sistemazioni tende ad evitare il dilavamento del terreno (cioé l'erosione da parte dello scorrimento delle acque) e a favorire la meccanizzazione delle potature e della raccolta.
Ma a tal fine, oltre alla sistemazione del vigneto i vignaioli adottano anche altri accorgimenti: la pratica dell'inerbimento consiste nel far crescere nella vigna erbe che impediscono il dilavamento del terreno e nei terreni umidi permettono l'utilizzo dei macchinari senza che questi schiaccino il terreno rendendolo troppo compatto (questo fenomeno favorisce l'umidità che può produrre lo sviluppo di malattie).
      La pacciamatura consiste nel coprire il terreno con aterilae organico come paglia e pula. Si limita in questo modo l'evaporazione, si incrementa la struttura del terreno aumentando così la penetrazione della pioggia.
      Altra tecnica è quella del sovescio, la coltivazione di piante leguminose che seminate tra agosto e dicembre vengono interrate in primavera.
      Un parametro fondamentale per determinare la densità di impianto per ettaro è il sesto di impianto, la distanza cioè tra i filari e tra le piante di un filare, che influisce sulla qualità del vino perché la densità obbliga le piante ad entrare in competizione e ad affondare le radici nel sottosuolo per trovare spazio vitale. La pianta vegeta di meno, matura meglio i grappoli ed il sottosuolo, più ricco di sali minerali, determina una maggiore qualità del vino. La densità ottimale per una viticoltura di qualità è comunemente indicata è di 6-7000 ceppi per ettaro.

Situazione pedoclimatica
di Angelo Petracci

      La vite è una pianta molto resistente, ma nonostante questa capacità di adattamento alcune condizioni climatiche ne permettono un migliore sviluppo in funzione della produzione di vino di qualità.
      Le temperature medie annue non devono essere inferiori ai 10°C con una media intorno ai 20°C in estate e -1°C in inverno. La quantità di calore è molto importante in quanto è preferibile una maturazione costante delle uve, che produca vini profumati ed equilibrati. Fondamentale è inoltre il freddo invernale, in quanto favorisce sia la maturazione del legno che l'eliminazione dei parassiti.
      Altra importante variabile sono le precipitazioni, perché mantengono il terreno umido e favoriscono la maturazione dei frutti, soprattutto se si concentrano in inverno e primavera, con temperature fresche. E' invece dannosa la pioggia che cade durante la fioritura e durante la vendemmia, quando diluisce la concentrazione del succo degli acini. Nei paesi dove fa molto caldo si interviene con irrigazioni, una pratica da noi in Italia ritenuta discutibile e addirittura vietata in Francia per quanto concerne le AOC.
      Per quanto detto finora circa l'importanza dei fattori climatici e orografici risulta chiaro il motivo per cui ogni paese si è specializzato nella produzione di determinate tipologie di vino:
· le zone molto calde danno uve zuccherine e con poca acidità e quindi vengono prodotti vini liquorosi;
· le zone più fredde danno uve con meno zuccheri e maggiore acidità, quindi vini meno alcolici e più acidi;
· le zone a clima intermedio, come la Francia centrale e l'Italia settentrionale si caratterizzano per la produzione di vini rossi e bianchi di corpo pieno.
      L'ultimo parametro da prendere in considerazione è dato dal microclima che è determinato dal sistema di potatura, dall'inerbimento del terreno, dalla distanza tra le piante, la distanza tra i filari e la distanza delle piante dal terreno. Il tendone per esempio protegge le piante dall'eccessiva insolazione ma allo stesso tempo ne diminuisce la capacità di maturazione delle uve.
Il microclima rappresenta in sostanza le particolari condizioni climatiche che si vengono a creare nel singolo vigneto, a poca distanza dal suolo.

Il lavoro in vigna
      Altro importante fattore è la potatura della pianta. Nella scelta della tecnica vanno tenuti in considerazione il clima, il tipo di terreno, il grado di umidità della zona.

      I sistemi di allevamento sono numerosi e sono classificati per:
· l'altezza del tronco
· bassa,
· media,
· alta
· l'altezza dei capi a frutto
· potatura corta, (cordone speronato, alberello ecc..) forma in genere più pratica nella gestione (nessuna legatura dei tralci in fase di potatura) e spesso facilmente meccanizzabile (Gdc, cordoni alti)
· media/mista, tipo che prevede sia tralci lunghi (8-15 gemme) che tralci corti (2-3 gemme); un esempio di questo tipo di potatura è quella utilizzata nel Guyot;
· lunga, conserva tralci di lunghezza media di 10-20 o più gemme; questa forma di allevamento è in genere molto espansa e con sesti di impianto larghi
· lo sviluppo dei tralci
· orizzontale,
· verticale,
· inclinato
 
 
 

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