Mondo Medioevale e Corte Rinascimentale


Alcuni aspetti della coltivazione della vite nel Medioevo (propagazione per margotta, vendemmia, potatura) tratti rispettivamente dalle miniature del manoscritto "De Rerum Naturis" di Rabano Mauro, dell’VIII sec. (Biblioteca del Monastero di Montecassino) e da un Martirologio del 1180 (Archivio Capitolare, Cremona)

Se all’impero romano spetta il merito di aver diffuso la vite nell’Europa continentale ed atlantica, ad un suo imperatore, Domiziano, complici un eccesso di produzione di vino nei territori occupati da Roma ed una carestia di frumento, è attribuita la prima legge restrittiva sulla coltivazione della vite al di fuori dei confini d’Italia.
Ma questo fu solo l’inizio della grande crisi dell’agricoltura e viticoltura romana che dal II sec d. C. andrà aggravandosi fino al tracollo dell’Impero romano d’Occidente.
La crisi della viticoltura diviene inarrestabile quando alla piccola proprietà si sostituisce il latifondo assenteista dei grandi proprietari, i quali ricorsero all’affitto per garantirsi un reddito sicuro, sebbene modesto, ma che privilegiava la coltivazione dei cereali a quello della vite, più rischioso e maggiormente esigente di mano d’opera.
Il fenomeno divenne particolarmente grave nel corso del III e IV sec. a causa dello spopolamento progressivo delle campagne al quale contribuirono le guerre e le pestilenze. Si cercò di porre un rimedio alla mancanza di manodopera importando dal nord migliaia di prigionieri di guerra. Un altro fattore di decadenza fu il trasferimento delle linee di traffico verso altri porti più settentrionali.
La rinascita della viticoltura medioevale coincide con l’espansione del Cristianesimo e con il nuovo simbolismo che legava il vino al sacrificio della Messa.
Per contrastare l’estirpazione dei vigneti (15.000 ha si erano impaludati e 130.000 ha vennero cancellati dai ruoli dell’imposta fondiaria), Teodosio II stabilì la condanna a morte per quanti spiantavano le viti.
All’occupazione dei Visigoti nel 410 e dei Goti nel 553, che resero insicure le campagne, seguì l’invasione dei Longobardi guidati da Zattone, che nel 571 fondarono a Benevento il regno della Langobardia minor e svilupparono l’agricoltura introducendo nuove colture quali il gelso, la robbia (per la produzione di un colorante rosso), il riso (nella valle del Sarno) e diedero nuovo impulso alla viticoltura, anche con la diffusione di alcuni vitigni di origine pannonica.
Le numerose testimonianze di età ostrogota ricavabili dalle lettere di Cassiodoro e longobarde dall’editto di Rotari del 643 indicano il vigneto medioevale chiuso da broli e clausure, spesso all’interno delle mura cittadine.
Singolare è in questo periodo l’espansione della viticoltura verso l’Europa settentrionale, fino all’Inghilterra, sia per esigenze religiose che per il manifestarsi di una fase climatica favorevole.
A questa diffusione generalizzata nella Respublica Christiana, corrisponde una progressiva contrazione della vite nelle zone mediterranee dove si stava espandendo la religione dell’Islam (Pini, 1988).
La viticoltura tornò ad essere una attività economica importante nell’età carolingia, durante la quale la vite oltre ad essere nuovamente coltivata in aperta campagna, divenne la protagonista delle numerose opere di disboscamento e bonifica operate dagli ordini monastici, benedettini in primis.
La diffusione della regola benedettina appunto nel X sec. con l’instaurarsi di nuovi rapporti tra proprietà e contadini, quali la concessione di fondi ad meliorandum ed i contratti di pastinato (la messa a coltura di terre incolte), oltre alla modalità di divisione del vino proveniente dai nuovi impianti, tra i coloni e la proprietà, favorì la diffusione della viticoltura, che passa, secondo il Lizier (1902), da un rapporto tra vite e piante arboree di 1 a 1 nel 950 al 3,25 a 1 nel 1.100.
Tra i vini meridionali, oltre ai vini greci e vini latini si ricorda il Masniagueri o Mangiagueri, il cui nome deriva dall’omonimo vitigno, Mangiaguerra.
Ad una viticoltura ecclesiastica si affianca una viticoltura laica e signorile, che vide nella produzione del vino una sicura fonte di reddito, alla quale seguì una viticoltura borghese, espressione di un consumo di vino generalizzato in età bassomedioevale.
La viticoltura ed il vino diventarono centrali nell’economia agricola di quei tempi, come testimoniano le leggi e gli statuti emanati in difesa e per la diffusione della vite, nelle norme di trasporto e vendita del vino, nelle date d’inizio della vendemmia. Una rigida normativa dalla quale traspare la preoccupazione delle classi dirigenti delle città di disporre di elevate quantità di vino, che certo non brillano invece per qualità.
Si ricordano in questo periodo anche i contratti di pastinato, stipulati dalla Chiesa di S. Massimo di Salerno tra il X e l’XI sec., che prevedevano l’obbligo di conferimento del vino da parte dei coloni in appositi centri di raccolta, i cellaria (Martini, 1985)
Analogamente ad altre parti d’Italia e d’Europa. la viticoltura campana assume nel Medioevo dimensioni mai raggiunte in precedenza.
All’origine del fenomeno le stesse cause che portano un po’ dovunque alla diffusione di questa coltura, anche su terreni ad essa non particolarmente adatti, quali il carattere sacrale del vino, il suo impiego nella medicina ed infine una fonte di calorie e di evasione a basso costo (Vitalo, 1988).
Il risveglio della viticoltura coincise con la fine della guerra greco-gotica e con l’occupazione longobarda ed è facilmente documentato dal ruolo che la coltivazione della vite assume nei contratti agrari pattuiti tra proprietario e coltivatore in quanto la quota annuale di vino che il proprietario richiedeva al concessionario del fondo era di circa il 50% della produzione.
Talvolta il vino veniva prelevato direttamente dal palmento, in altri casi era conservato presso il fondo in appositi organeis a vino forniti dal proprietario.
Nel sec. XII con la fondazione del convento di Montevergine, prendendo le mosse dalla riforma dei Certosini di Cluny, auspice anche lo sviluppo commerciale della Repubblica di Amalfi e dei due Principati di Citra ed Ultra, vengono vitate molte terre incolte, soprattutto sul versante tirrenico.

Bacco - tabacco - e Venere...
Paganesimo e cristianesimo antico a confronto
Un proverbio latino recita: "Venerem sine Libero et Cerere frigere". Lo si può tradurre più o meno così: "Senza Bacco e Cerere, si raffredda Venere", dove le tre divinità stanno a indicare rispettivamente il vino, il cibo e l'amore. Dalla schiettezza un po' grossolana del proverbio latino possiamo dedurre almeno due cose: che la triade divina simbolizza una parte essenziale delle gioie concesse all'uomo e che esiste una relazione tra queste tre fonti di godimento. Le occasioni e le pratiche del piacere nel mondo antico sono state indagate a fondo, soprattutto da quegli studiosi che hanno applicato i metodi dell'antropologia moderna allo studio della società greca e romana. Così oggi sappiamo molto circa la sessualità e l'erotismo, il consumo del vino in occasione del simposio, l'arte culinaria, la cura del corpo ed altri aspetti della "gioia di vivere" degli antichi.
Erodoto, a proposito dei ricchi egiziani, racconta che nel corso delle loro riunioni, quando il pasto è terminato, un uomo porta in giro una statuetta di legno in una bara, e mostrandola a tutti i convitati dice: "Guarda costui e bevi e godi, perché una volta morto, tu sarai come lui" (2,78). Benché Erodoto attribuisca questa usanza agli Egizi, il motivo del carpe diem associato al vino è un tratto culturale tipico della mentalità greca, che è attraversata dalla polarità tra mondo del simposio e mondo dei morti. Il vino è il flutto della vita, come dice Euripide nella Baccanti:
"il figlio di Semele [Dioniso], ... trovò il liquido tratto dall'uva e lo insegnò ai mortali, la bevanda che agli esseri infelici che sono gli uomini e muoiono, acquieta ogni dolore quando dentro il flutto della vita li inonda e dà il sonno e con il sonno l'oblio di tutti i mali della giornata: non vi è medicina altra che questa per chi soffre e pena. È lui che, nato dio, viene versato come offerta agli dèi, ed è per lui che l'uomo ottiene i beni che ogni volta domanda".
A tutti è noto che i Greci hanno fatto un gran parlare di vino, lo hanno cantato in poesia, hanno ossessivamente raffigurato sui vasi scene simposiali. In effetti, il banchetto era un momento importantissimo della vita sociale, almeno di quella maschile, perché le donne, ad eccezione delle etere, non vi erano ammesse. Attraverso le fonti letterarie e iconografiche conosciamo bene il suo svolgimento in epoca classica, quando il simposio presenta ormai una forma codificata, che è il risultato sia dell'introduzione della moda orientale di cenare sdraiati, sia dell'evoluzione del banchetto omerico, dove il momento del mangiare e quello del bere non erano ancora ben distinti. Il simposio classico comincia invece quando la cena vera e propria, il deipnon, è terminato: allora le mense vengono rimosse, i partecipanti si coronano di fiori e mirto, si profumano e fanno una libagione di vino puro in onore del dio. Poi si fanno portare cibi che accompagnano il vino e viene eletto il simposiarca, ossia il "presidente" del banchetto, che ha il compito di assicurarne il buon svolgimento, di stabilire quante coppe si berranno, di far miscelare il vino e di moderare i discorsi e le esibizioni degli invitati. Durante il simposio infatti non si beveva soltanto, ma si chiacchierava, si cantava, si giocava, si ascoltava la musica. Come ha osservato François Lissarague, il simposio è in sostanza una riunione collettiva che è al tempo stesso spettacolo, esibizione e divertimento, in cui tutti i sensi vengono stimolati: l'udito, il gusto, il tatto, l'olfatto e la vista.
Le centralità del simposio come forma sociale di godimento, non deve far trascurare l'importanza del cibo come fonte di piacere. Il coro della Pace di Aristofane canta le semplici gioie che si possono godere quando non infuria la guerra:
"Sono felice, sì, sono felice: mi sono sbarazzato dell'elemo, del formaggio e delle cipolle [che costituivano il cibo dei soldati]. Non mi piacciono le battaglie, ma una bella bevuta con gli amici accanto al fuoco: attizzare la legna più secca tagliata in estate, abbrustolire i ceci, mettere sul fuoco le ghiande e sbaciucchiarmi la Tracia [cioè la serva] mentre mia moglie si fa il bagno".
Si tratta di un elenco di piaceri piuttosto frugali, ma spesso i poeti della commedia antica si divertivano a immaginare in termini iperbolici un paese di cuccagna pieno di ogni ben di dio, una vera e propria isola di Utopia gastronomica, dove non si lavora e tutto viene prodotto spontaneamente, i cibi giungono automaticamente a portata di mano dei fortunati commensali, i pesci saltano direttamente nelle loro bocche, i pani si ammassano ai loro piedi, la selvaggina li implora di essere mangiata eccetera.
Ritorniamo al rapporto che lega cibo, vino e sesso. Questo motivo, già noto alla letteratura medica ippocratica, sarà ripreso in chiave moralistica dai padri della Chiesa. L'effetto del consumo di alcool sul desiderio sessuale è denunciata, ad esempio, da Clemente di Alessandra in una pagina del suo Pedagogo:
"è necessario che i ragazzi e le ragazze si astengano in più possibile da questo veleno, perché non è opportuno versare su un'èta già piena di bollori il più caldo dei liquidi, il vino, dal quale prendono fuoco impulsi selvaggi, desideri infiammati e temperamento ardente. I giovani riscaldati interiormente inclinano verso i desideri, al punto che la loro malattia si manifesta apertamente nel loro corpo quando gli organi del desiderio abbiano raggiunto in loro una maturità troppo precoce".
(II,29,3).
Allo stesso modo san Gerolamo, pur confessando che rinunciare ai cibi prelibati era più penoso per lui che abbandonare la propria casa, i genitori, la sorella e le amicizie, tuttavia raccomandava il digiuno come un efficace antidoto contro il desiderio sessuale, una specie di castrazione non cruenta. Questi esempi sembrano confermare il luogo comune, secondo cui all'etica edonistica degli antichi greci e romani si contrappongono i valori dell'astinenza e della castità propri della morale cristiana.
Le differenze sono particolarmente evidenti nell'ambito della sessualità: per il cristianesimo l'atto sessuale è associato al male e al peccato, mentre per gli antichi greci ha una valenza positiva; la tradizione cristiana considera un valore l'astinenza e la verginità, mentre i greci esaltavano l'amore fisico; il cristianesimo circoscrive la sessualità all'interno dei rapporti matrimoniali, mentre i greci svincolavano il sesso dalla funzione riproduttiva e accettavano anche i rapporti extraconiugali e omosessuali. È sicuramente innegabile che i pagani fossero meno inibiti dei cristiani. I greci avevano una divinità speciale per l'amore fisico, Afrodite, e nei miti e nelle leggende gli dèi vengono spesso ritratti mente godono dei pieceri della carne. Lungo le strade di Grecia erano poste statuette di Ermes con il pene eretto ed enormi falli erano portati in processione ogni anno durante le feste Dionisiache. Nei nostri musei i vasi attici raffiguranti scene erotiche fanno la gioia dei ginnasiali in visita d'istruzione. E chi non ha riso per il linguaggio licenzioso delle commedie di Aristofane?
Ma l'idea che i greci fossero i campioni dell'amore libero e della mancanza di pudore, è del tutto anacronistica e fuorviante. Basterà citare alcuni esempi per correggere questa immagine. Ad esempio, l'epica omerica, che pure considera il sesso come una delle cose belle della vita, indica i genitali con il termine aidoia, "vergogne", "pudenda". E se l'Iliade e l'Odissea descrivono con minuzia di dettagli certe attività piacevoli, come la preparazione dei cibi o la mescita del vino, sono piuttosto reticenti e sobrie quando si tratta di descrivere l'amore fisico. Il Cantico dei Cantici, a confronto, ricorre a un linguaggio erotico ben più esplicito quando presenta l'incontro tra i due amanti:
"Aprivo al mio diletto e il mio diletto mi stringeva, si piegava
l'anima mia si perdeva per la sua dolcezza. Quando il mio diletto spinse dentro il suo sesso le mie viscere ebbero un fremito"
(14,5-6, trad. di Giovanni Garbini).
Inibizioni linguistiche si trovano anche nella commedia di Menandro, dove la musa sboccata di Aristofane ha ceduto il posto a una vena più castigata. Inoltre non bisogna dimenticare che nella società greca la donna viveva segregata e che gli incontri tra ragazzi e ragazze erano difficili e sempre clandestini. Il termine moicheia, tradotto generalmente con "adulterio", ricopre in realtà una categoria molto più ampia nel diritto greco. Esso non indicava infatti soltanto il rapporto illegittimo con la moglie di un altro, ma più in generale la seduzione di qualsiasi donna posta sotto la tutela di un uomo, ad esempio un madre vedova o una figlia nubile. Anche l'atteggiamento nei confronti dell'omosessualità non deve essere idealizzata. Molti studiosi preferiscono parlare di pseudo-omosessualità a proposito della pederastia greca e pongono questo fenomeno in relazione con la segregazione sessuale vigente nella società classica.
Dunque l'idea che la sessualità pagana, libera e disinibita, sarebbe stata cancellata dalla pruderie e dalla sessuofobia cristiana è un semplice mito della nostra cultura moderna? Innegabilmente anche in terra greca vi è stato quel processo che Michel Foucault ha chiamato "problematizzazione morale dei piaceri". I greci hanno, al pari di altre civiltà, elaborato discorsi e sistemi finalizzati al controllo e alla manipolizzazione del piacere. Là dove c'è il piacere c'è necessariamente anche una morale, per quanto lassista e tollerante essa sia. Questa constatazione suona persino banale. Gli ideali dell'astinenza, dell'ascetismo e della castità non appartengono soltanto alla tradizione cristiana, ma hanno avuto una loro fortuna anche nell'ambito pagano, soprattutto ad opera delle scuole filosofiche di età ellenistica. Basti leggere le parole con cui Diogene il cinico invitava a fuggire quell'avversario furbo e astuto che è il piacere:
"Il piacere non si serve apertamente della violenza. Infatti inganna e ammalia con farmaci funesti, proprio come Circe, secondo quanto dice Omero, stregò i compagni di Ulisse che divennero porci, lupi o altre bestie selvagge. Il piacere è simile. Esso tende le sue insidie non in modo semplice, ma in tutti i modi possibili, attraverso la vista, l'udito, l'odorato, il gusto e il tatto. Cerca di corrompere attraverso il cibo, le bevande e i piaceri dell'amore, sia le persone sveglie sia quelle addormentate"
(Dione Crisostomo 8, 21-22).
Mettendo in guardia dalle lusinghe dei piaceri, Diogene non intendeva condannare il piacere in sé, ma piuttosto le sofferenze che sono associate al godimento del piacere in una società altamente civilizzata com'era quella ellenistica: "Spesso ho visto mendicanti che a causa della loro indigenza godevano di buona salute, mentre ho visto ricchi che a causa dell'intemperanza del loro ventre e del loro sesso erano malati". Parafrasando Leopardi si potrebbe dire che i cinici credevano che l'affanno fosse figlio del piacere, o piuttosto di un cattivo uso dei mezzi che procurano piacere e dell'incapacità di disciplinare i propri desideri. Anche Epicuro invitava a una vita sobria, lontana dal lusso, eppure poneva il piacere come principio fondamentale, anticipando in qualche modo l'idea freudiana che fa del principio del piacere la forza regolatrice del corso assunto dagli eventi mentali. Scriveva infatti il fondatore del Giardino nella celebre lettera al suo discepolo Meneceo:
"il piacere è principio e termine estremo del vivere felice. Noi sappiamo che esso è il bene primo e a noi connaturato, e da esso trae origine ogni nostro atto di scelta e di rifiuto, e ad esso ci rifacciamo giudicando ogni bene in base alle affezioni assunte come norma".
Ma subito dopo aggiunge:
"Consideriamo bene grande l'autosufficienza, non perché in ogni caso dobbiamo attenerci al poco, ma perché, se non abbiamo molto, dobbiamo saperci accontentare del poco, schiettamente convinti come siamo che quelli che con maggiore diletto godono dell'abbondanza, sono proprio quelli che di essa hanno minor bisogno, e che tutto ciò che è secondo natura è facile a procacciarsi, ciò che è vano è difficile a ottenersi. E i cibi frugali danno lo stesso piacere che un cibo sontuoso, una volta che sia eliminato il dolore che viene dal bisogno; una focaccia e un sorso d'acqua danno il più alto piacere a chi li gusti avendone realmente bisogno".
Le dottrine moralistiche dei filosofi hanno contribuito a imporre un ideale ascetico, che tuttavia nelle sue motivazioni e nei suoi fondamenti filosofici è profondamente diverso dalle pratiche di mortificazione della carne raccomandate dal cristianesimo. C'è un'altra, non trascurabile differenza. Non potendo i filosofi pagani agitare la minaccia di un inferno in cui i golosi e i lussuriosi avrebbero espiato eternamente i loro eccessi, i richiami a una vita morigerata non dovevano avere una grande forza di persuasione. Questa almeno è l'impressione che si ricava leggendo l'epitaffio che una mano ignota ha inciso sulla tomba di un certo Tito Claudio Secondo, un liberto dell'imperatore Claudio: balnea vina Venus corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt balnea vina Venus, "bagni, vino e amore corrompono i nostri corpi, ma bagni vino e amore fanno la nostra vita".
 

Scultura tedesca del XV secolo

Nel mondo romano persistevano svariati culti religiosi che la gente riteneva tutti veri, i filosofi tutti falsi e i magistrati tutti utili.
I culti sorgevano e tramontavano ed i magistrati romani non avevano elementi certi per distinguere i primi cristiani giudei seguaci di quello che chiamavano il culto del Nazareno, dai seguaci di Bacco. Vi erano nei due culti molte analogie. Tutti e due erano celebrati in segreto e comportavano un pasto cannibalistico: ambedue sostenevano di mangiare le carni del loro Dio e di berne il sangue. Lo stato romano riconosceva la libertà di culto ma lo stesso Nerone giudicò severamente riti fuori dalla “regola” ed accusò i cristiani dell’incendio scoppiato nel 64 d.C. Per la verità le storie di cannibalismo erano infondate mentre i cristiani mangiavano cibi normali. Quando il Cristianesimo arrivò a Roma fu influenzato da Bacco e il suo culto. La salvezza spirituale era lega al culto del corpo ed al sangue del salvatore, mentre il sangue di Bacco era vino, tutto ciò per alcuni storici determinò nell’opinione pubblica di allora una certa confusione tra il culto di bacco  e quello della religione Cristiana. Dopo tre secoli la cosa era così confusa che la figli di Costantino, che aveva fatto del cristianesimo la religione ufficiale romana, si fece costruire un mausoleo nella chiesa di Santa Costanza dove veniva raffigurata sul soffitto a mosaico avvolta da simboli bacchici e tralci di viti.

L’idea che il vino, il sangue dell’uva, rappresentasse il sangue di Cristo è espressa in questo dipinto. Quello del Cristo al torchio è un motivo ricorrente nelle regioni produttrici di vino dell’Europa centrale dutante tutto il medioevo. (Dipinto bavarese fine XV secoli).
Transustanziazione.
 Nella teologia cristiana, il dogma per cui nell'eucaristia il pane e il vino divengono, alla consacrazione, vero corpo e sangue di Gesù anche se permangono le caratteristiche fenomeniche del pane e del vino (forma, colore, sapore ecc.). Gli si oppongono altre dottrine, come la consustanziazione, ossia la dottrina luterana secondo cui il corpo e il sangue di Cristo coesistono nella sostanza materiale del pane e del vino. Il termine fu assimilato nel linguaggio della Chiesa cattolica nel 1215, quando venne utilizzato nel quarto concilio lateranense. Il dogma venne ribadito nel 1551 dal concilio di Trento, che escluse il permanere della sostanza del pane e del vino sotto le specie eucaristiche e, quindi, la consustanziazione.
La dottrina della transustanziazione non appartiene solo alla Chiesa cattolica, ma anche alla Chiesa ortodossa, conformemente alle decisioni del sinodo di Gerusalemme (1672), quindi la Consustanziazione è una Dottrina luterana intesa a spiegare la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nell'Eucaristia; l'idea compare già negli scritti di Martin Lutero, ma il termine "Consustanziazione" venne impiegato per la prima volta dal suo contemporaneo Melantone.
Il concetto di Consustanziazione si fonda sui medesimi presupposti filosofici della transustanziazione, a cui tuttavia si contrappone. Entrambe le dottrine utilizzano l'insegnamento aristotelico secondo cui la materia è formata dagli accidenti, percepiti dai sensi, e dalla sostanza, che è colta dall'intelletto e costituisce la realtà essenziale di ciascuna entità individuale. Entrambe concordano nell'affermare che nell'Eucaristia gli accidenti del pane e del vino restano immutati. A differenza della dottrina della transustanziazione, però, quella della consustanziazione sostiene che resta immutata anche la sostanza del pane e del vino e che, in virtù della parola di Dio, il corpo di Cristo coesiste "in, con e sotto" la sostanza del pane e il suo sangue "in, con e sotto" quella del vino.
Lutero illustrò la consustanziazione con l'analogia del ferro messo nel fuoco: ferro e fuoco sono uniti nel ferro infuocato, eppure le due sostanze rimangono immutate.
Il Concilio di Trento XIX, concilio ecumenico della Chiesa cattolica, in reazione alla Riforma protestante, deliberò una riforma generale del corpo ecclesiastico ridefinendone i dogmi. I decreti conciliari ratificati da papa Pio IV il 26 gennaio del 1564 costituirono il modello della dottrina di fede e della pratica della Chiesa cattolica fino alla metà del XX secolo.
Risolte le questioni procedurali, l'assemblea si rivolse alle fondamentali problematiche dottrinali sollevate dai protestanti. Uno dei primi decreti affermò che la Scrittura doveva essere interpretata secondo la tradizione dei padri della Chiesa: un rifiuto implicito del principio protestante della "sola Bibbia". Tuttavia il concilio non affrontò mai una discussione riguardante il ruolo del papato nella Chiesa, questione sollevata ripetutamente dai protestanti.


A Paphos in Cipro vediamo un bel mosaico raffigurante la  transizione dettata dal culto cristiano. Dioniso fanciullo è riprodotto in una scena molto simile all’adorazione dei Magi. Invece dei satiri lo circondano dei personaggi adoranti. Si scorgono Ambrosia e Nektar (cibo e bevanda degli Dei).
 

L’Alto Medioevo di Jan Dhondt, Feltrinelli, Mi, 1970.
Con il declino dell'Impero romano, le invasioni e i saccheggi dei barbari, la gastronomia segna una battuta d'arresto. I contatti con le popolazioni barbare, nomadi e guerrieri, non portò alcuna novità, ma anzi impoverì la tradizione gastronomica romana.

Busto di Carlomagno conservato nella cattedrale di Aquisgrana. Reliquiario d’oro del 1349.

Si racconta che Carlomagno mentre risaliva il Reno in barca, osservò che la neve si scioglieva prima sulla ripida costa del Johannisberg, cosi diede ordine di piantare viti, quelle erano le prime viti in renania. Carlomagno stabilì leggi assai rigorose sull’igiene nella produzione del vino, aggiungendo l’ordine rivoluzionario che l’uva non si dovesse pigiare con i piedi, ne si doveva conservare il vino in otri di pelli animali. Fu comunque solo con Carlo Magno, ritornò un certo gusto per la buona tavola. Il Medioevo è il periodo dei pasti a base dei pochi cereali, delle verdure provenienti da piccoli orti. in questo periodo le polente dei romani erano sostituiti da zuppe di legumi e cereali. Dopo il 1000 arrivano nuove coltivazioni che sono le basi dei successivi cambiamenti: la canna di zucchero e il riso, entrambi giunti in Italia grazie agli arabi. Nel Medioevo si incomincia a produrre il burro e il formaggio secco, antenato del nostro parmigiano. Sempre il l’Altomedioevo fu il periodo in cui si cominciò ad utilizzare ogni parte del maiale, che divenne, per facilità di allevamento, una delle fonti principali di carne e prodotti di salumeria, soprattutto prosciutti e salsicce. Questo ovviamente dove non era presente la dominazione araba che, in conformità alle leggi del Corano, proibiva il consumo della carne di maiale. Durante il periodo di permanenza in Sicilia, gli arabi influenzarono moltissimo la preparazione dei cibi. Essi riducevano in polvere le spezie che venivano mescolate alle carni e ai pesci. Le preparazioni dei dolci erano celebri e assai apprezzate, ancora oggi da esse derivano il marzapane e il torrone. Nell’alto medioevo il latifondo del grande proprietario era coltivato da contadini schiavi ma anche dai contadini liberi che si assoggettavano a prestazioni dovute al signore del luogo, questi erano riuniti in una comunità spirituale. Le foreste dominavano ancora il paesaggio europeo e la comunità costituiva un modo per non restare isolati, i prodotti della terrea non erano abbondanti, una spiga di grano produceva circa 4 chicchi e questo in caso di carestia faceva precipitare le comunità nelle nere carestie che portavano fame e morte. Gli annali Carolingi parlano di epidemie da carenze alimentari più spesso delle battaglie. I villaggi che si costituivano ai margini della fitta boscaglia erano certe volte circondati e protetti da cinte fatti di pali o siepi, mentre la manutenzione era curata efficacemente fino a punire la violazione o l’abbattimento della cerchia con le pene più severe. In questa località protetta non esistevano obblighi di servitù ne pretese di ingerenze del sovrano o dei signori feudatari, successivamente le mura sostituirono le cinte di pali e siepi, poi con il trascorrere dei secoli si formarono nelle alture in modo da essere ben difendibili, borghi e città espandevano le cinta murarie. Al di fuori i terreni erano coltivati assiduamente, ed esistevano piccole case in certi casi capanne con il proprio cortile o giardino, l’orticello dove si coltivava legumi e verdure, il tutto cintato da pali di castagno. In questo spazio l’uomo medioevale si sentiva come un piccolo re. Questo mondo era circondato dall’esterno, dove  l’uomo non era più il padrone, qui era soggetto a doveri e prestazioni stabilite da leggi consuetudinarie, obblighi imposti dalla collettività, mentre grave era la situazione dei contadini schiavi obbligati a lavorare una porzione stabilita di terra, il cui prodotto apparteneva esclusivamente al padrone della tenuta. Le terre erano suddivise in tre ampie zone che ogni anno avevano diverse destinazioni: un campo era destinato alla semina invernale (frumento, segale e farro), un altro alle semine primaverili (orzo, avena, legumi), un terzo era tenuto a maggese. Per meglio sfruttare le risorse naturali queste tre grandi estensioni di campo erano coltivati a rotazione, ma dopo un certo periodo il terreno si esauriva e non produceva la quantità di prodotto iniziale, allora era abbandonato e per ottenere altro terreno coltivabile si procedeva all’incendio della foresta, al dissodamento dei terreni ed a nuove coltivazioni. Oltre alla coltivazione si praticava anche l’allevamento del bestiame e dopo il raccolto i campi erano utilizzati come pascolo, mentre nelle regioni umide i prati erbosi che qui vi nascevano, erano sfruttati per la raccolta del fieno che si usava come foraggio d’inverno insieme ai germogli dei giunchi che crescevano ai bordi delle paludi. Questo sistema prosperava in gran parte dell’Europa, ma nelle zone collinari ed in Inghilterra il bestiame costituiva la fonte primaria di sostentamento mentre l’agricoltura quella secondaria. La foresta per l’uomo Altomedioevale  non aveva un aspetto negativo anche se la considerava sostanzialmente diversa da come la vediamo noi oggi, i pini ad esempio erano considerati alberi da frutto, le pigne erano utilizzate per accendere il fuoco, i semi si facevano seccare e servire come cibo. Gli alberi a legno dolce ( pini, ontani, betulle, aceri e carpini) erano considerati poco utili visto che non potevano essere usati per le costruzioni,  mentre l’albero più pregiato era la quercia, che forniva un eccellente legname da costruzione e ghiande per i suini, e il castagno che dava pure legno pregiato e castagne. Infine il legno di bossolo era usato per la fabbricazione di diversi utensili necessari all’uomo del tempo. Nel bosco si poteva raccogliere frutti selvatici, cacciare la selvaggina , pescare negli stagni, raccogliere legna per il fuoco e serviva come pascolo per i suini allevati anche per il lardo che specialmente in Europa centrale costituiva una parte essenziale del nutrimento umano. I cereali costituivano la base dell’alimentazione ed in Scozia  un documento del 508 (Lex Salica)  fa menzione della pappa di avena. Un capitolare emanato nel 794 a Francoforte stabiliva i prezzi di quattro specie di cereali. Il più pregiato era il frumento, poi la segale, poi l’orzo ed infine l’avena. Per un denaro si potevano avere o dodici pani di frumento, o quindici pani di segale o venti pani di orzo o venticinque pani di farina di avena. Si può allora affermare che l’alimentazione dell’uomo medioevale si basava su quattro specie di cereali oltre al farro, le rilevanti quantità di pane venduto fa pensare che esistesse un vero e proprio mestiere del fornaio. Nei vari capitolari troviamo che perfino alcune famiglie contadine producevano e sfornavano pani per poi vendere mentre la fabbricazione del pane in molti casi era un guadagno supplementare della famiglia contadina. L’avena costituiva poi nell’Europa centrale un elemento indispensabile per la fabbricazione della birra che era aromatizzata con il luppolo. La coltivazione del luppolo è menzionata per la prima volta nell’anno 763 in un documento di Pipino il Breve. Subito dopo i cereali ci sono i legumi, come fave e piselli, e pare che la farina di legumi sbucciati mista a quella dei cereali fosse spesso usata nella panificazione. Le veccie poi erano coltivate come foraggio invece il trifoglio, l’erba medica, e la lupinella o sulla erano sconosciuti.Tra gli ortaggi nel Medioevo si distingueva tra erbaggi e radici, a seconda che la parte commestibile della pianta crescesse sotto o sopra il suolo. Il cavolo era alla base dell’alimentazione, mentre per la carota dobbiamo aspettare per la diffusione il periodo rinascimentale. Le cipolle pare fossero riservate ai giorni di festa, mentre non si sente parlare molto di funghi e mai di tartufi. I carciofi non si mangiavano e neppure gli asparagi e i meloni che pure erano molto apprezzati nell’antichità Classica. Per le piante tessili la canapa e il lino i cui semi erano usati anche per l’alimentazione era coltivata soprattutto negli orti. Nei paesi mediterranei l’olio si ricavava naturalmente dalle olive e tutte le tenute avevano il loro oliveto, tuttavia l’olio era caro e raro, mentre era reperibile anche olio di mandorle, canapa, faggio e soprattutto di noci, ed è il noce un albero pregiatissimo e diffuso più che ai giorni nostri soprattutto in quei luoghi dove non arrivava la coltura dell’olivo. Il raccolto delle noci come quello dei cereali o dei legumi era soggetto alla decima. Per i coloranti il Medioevo conosceva solo quelli vegetali, come la guada (Reseda Luteola) o erba giallina,  Il guado (Isatis Tinctoria)  per il blu, la robbia ( Rubia tinctoria ) per il rosso. Per le piante medicinali il giardino dei semplici sorgeva generalmente accanto all’infermeria dei conventi, ed era destinato alla coltivazione di piante medicinali come gigli, menta, rose, salvia, ruta, giaggiolo, menta, finocchio, menta piperita, genziana, mandragola. Dei frutti abbiamo il melo, pero susino, nespolo, sorbo, pesco, melo cotogno, nocciolo, mandorlo gelso fico, ciliegio, ed il già rammentato noce. Della fragola si conosce esclusivamente quella di bosco, mentre le mele servivano alla produzione del sidro, ma questa bevanda ricavata nel primo Medioevo da mele selvatiche non era apprezzata, ed è solo nel XII secolo che cominciò ad essere più largamente diffusa. La birra era molto usata insieme al vino. A tal proposito la vite si estendeva molto più nel nord Europa di quanto non arrivi oggi, si faceva il vino di Bonn ed anche di Gand e di Leon mentre nel IX secolo un abate nella regione di Saint-Germen-des-Pres piantò 94 arpents (corrispondenti a circa 47 ettari) a viti. A quei tempi il vino di Borgogna era già famoso. Per fauna la vacca era un elemento essenziale nella vita quotidiana, si mangiava anche carne bovina ma pare si macellasse un animale solo quando diventava vecchio o sterile, il bue e la vacca erano usati come animali da trasporto e per lavorate i campi, la vacca serviva soprattutto per il latte usato principalmente per la produzione del formaggio, elemento essenziale nella nutrizione dell’uomo. Il cavallo era impiegato soprattutto nella guerra o come animale da soma nei viaggi, ma nell’Altomedioevo era scarsamente usato come animale da lavoro o da tiro, funzione svolta egregiamente invece anche dall’asino o dal mulo. Il maiale ebbe un importanza grandissima nell’Altomedioevo, richiedeva poche cure, viveva libero ripulendo le boscaglie da macchie infestanti, mentre la caduta abbondante delle ghiande in autunno, li rendeva atti alla conservazione in salamoia durante il brullo inverno,  erano macellati in Novembre-Dicembre e costituirono la base sostanziale dell’alimentazione. I suini Medioevali erano sostanzialmente differenti dagli attuali, avevano orecchie cortissime ed erette, testa più grande e lunga che terminava in un grifo appuntito ( non a tappo come oggi ) da cui spuntavano visibilmente dei lunghi canini, le setole del mantello nero stavano ritte sul tergo, le gambe erano lunghe e sottili. Nel complesso i maiali di allora erano simili agli attuali cinghiali. Gli ovini erano allevati ed apprezzati per la lana e non per la carne. Poiché non si conosceva il cotone, anche se i musulmani lo stavano coltivando in Spagna, per il vestiario si doveva ricorrere alla lana ed al lino. Il latte delle pecore era utilizzato come alimento e serviva come il latte di vacca alla produzione del formaggio, mentre il grasso di pecora era usato per le candele e dalla pelle si ricavava la pergamenacee che in questo periodo sostituì il papiro. Le capre erano diffuse nelle regioni montane più povere. Dei volatili nel Medioevo erano diffusissimi il gallo e la gallina, l’oca, l’anatra, il cigno e la gru. I galli erano spesso castrati e consegnati nel periodo Pasquale al proprietario possidente terriero insieme alle uova di gallina ben lessate e benedette dai parroci il Venerdì Santo. Dopo la gallina il volatile più diffuso era l’oca, mentre le anatre erano poco apprezzate. Il tacchino e la gallina faraona apparvero dopo il XVI secolo. Nel periodo Medioevale i pesci avevano un posto importante nell’alimentazione, nell’entroterra i pesci freschi di acqua dolce erano più usati di quelli di mare,  mentre si utilizzavano aringhe, delfini, balene salate. Ogni tenuta aveva una sua peschiera per l’allevamento del pesce destinato ai ricchi proprietari ma gli stagni le paludi ed i fiumi di acqua dolce erano accessibili e chiunque poteva completare la propria alimentazione con le carni di pesce fresco. L’anguilla sembra fosse il pesce più diffuso. Tra gli animali selvatici ricordiamo gli Uri o giganteschi tori selvatici estinti probabilmente durante il IX secolo. L’orso era molto diffuso come il cinghiale e il lupo, quest’ultimi era l’animale più temuto dall’uomo medioevale, decimavano le greggi, ed in maggio si tendevano ai lupacchiotti trabocchetti con reti o tagliole. Anche le volpi ed i tassi erano molto diffusi e temuti visto che le prime decimavano gli animali da cortile ed i secondi i frutti degli orti. La caccia era estesa ad animali per nulla pericolosi come daini, caprioli, cervi, conigli selvatici e lepri. Degli uccelli  si ricorda le pernici rosse, quaglie, colombacci, piccioni selvatici ed aironi. Il fagiano era allevato come uccello ornamentale ed era rarissimo allo stato selvatico o nei boschi. Gli uomini medioevali insieme a qualunque cibo mangiavano pane. La giornata dell’uomo medioevale trascorreva secondo il corso del sole, non esistevano mezzi efficaci per prolungare il giorno, le candele di cera erano riservate alle chiese e ai palazzi dei nobili, i contadini avevano solo candele fatte di grasso di pecora o fiaccole di pianastro resinoso. L’anno generalmente cominciava a Natale ma il suo decorso era segnato dai momenti più importanti del lavoro agricolo che si poneva cronologicamente in rapporto con le feste religiose. La semina cominciava nel mese di marzo, il viticoltore iniziava i suoi lavori a febbraio, in primavera si faceva uscire i buoi dimagriti dalle stalle ed in questa stagione i loro prezzo era il più basso, in maggio cominciava la fienagione e la tosatura delle pecore, mentre in giugno c’era la mietitura. In autunno i buoi erano rinchiusi nuovamente nelle stalle ma era il mese della vendemmia. La semina invernale avveniva tra settembre ed ottobre, periodo in cui si procedeva alla raccolta dei frutti del bosco che costituivano i viveri per l’inverno. Le feste erano ricche e gaie, accanto alla Pasqua esisteva la festa del raccolto, la festa del lavoro dei campi, la festa dei covoni, della raccolta della legna, dei granai del Natale. Nella popolazione povera il bisogno alimentare e lo spettro della fame restano al centro delle preoccupazioni sociali, cercava di alleviare con qualche ora di distensione e di comune allegria le ora di duro lavoro. Guerre, carestie e pestilenze costituiscono una continua minaccia alla sopravvivenza. Una bella tavola imbandita costituiva un importante segno di ricchezza e di prestigio sociale. I contadini poveri e i salariati delle città consumavano pasti frugali (pane, minestre di cereali ed erbe, radici, bacche, formaggi) durante le rare pause di lavoro. Le famiglie della classe superiori (piccoli borghesi, artigiani, commercianti) si riunivano a tavola per la colazione, alla fine della mattina, e soprattutto per la cena all’imbrunire. La tavola era ricoperta con una tovaglia. Si mangiava a due, nel medesimo tagliere (piatto di legno per i cibi). I cibi si prendevano con le mani. Veniva fatto grande uso delle spezie (noce moscata, pepe, cumino, zafferano), che provenivano dall’Oriente ed erano molto costose. Esse servivano a dare sapore ai cibi, non sempre freschissimi, inoltre si riteneva che favorissero la digestione e possedessero virtù curative. Nell’immaginazione popolare la ricchezza e la prosperità erano associate al cibo. Ancora oggi, soprattutto in Germania, nella piazza del paese si può vedere “l’albero della cuccagna”: durante le feste e le fiere, chi riusciva a raggiungere la cima di un palo scivoloso e unto, si impossessava di salami e formaggi appesi in alto. Tra gli utensili usati per il lavoro dei campi vi era l’aratrum costituito da un lungo bastone di legno tirato da due buoi provvisto in fondo di un uncino appuntito, indurito al fuoco, trascinato sul campo. Questo semplice strumento per smuovere il terreno aveva il grande vantaggio che ogni contadino poteva farselo da se. Era purtroppo utile solo per terreni morbidi ed ogni due o tre anni il contadino era costretto a lavorare il terreno con la vanga. La storia dell’aratro ha suscitato appassionanti discussioni tra gli studiosi ma sino ad oggi non è stato ancora chiarito, Probabilmente esisteva già al tempo degli antichi romani un aratrum che si poteva far avanzare su ruote. Fino all’XI secolo i contadini possedevano utensili in ferro solo in casi molto rari, mentre gli utensili in legno come sopraccennato erano fabbricati in legno di bosso, dal IX all‘XI oltre ai numerosi utensili in ferro si riscontrano coltelli, falci, lance, punte di aratri, lesine e subbie, aghi per il sarto ed ami per la pesca.

Da storia del vino in Toscana, a cura di Zeffiro Ciuffolotti, edizione Polistampa, Firenze, 2000.
Per tutto il medioevo la coltura della vite fu seconda per importanza solo a quella cerealicola, Nelle iconografie, molti mesi sono contraddistinti dalle operazioni compiute sulle viti e sull’uva: dalla potatura, alla vendemmia, la pigiatura, la svinatura. In Europa la concezione medica del tempo era assai favorevole al consumo del vino, ad esso erano attribuite importanti funzioni terapeutiche. Vedi Oltre Mattioli.
Nuovi monasteri spuntavano da ogni parte e questo favorì l’espandersi della viticoltura, e delle fiere commerciali.
Per la tecnica della vinificazione i metodi medioevali si sono conservati nel tempo mentre non si può dire lo stesso per i sapori dei vini, soprattutto perché sappiamo molto poco sui tipi di uva che venivano usati ed anche nomi uguali a quelli di varietà attuali potrebbero aver acquisito caratteristiche diverse dopo i molti secoli di coltivazione. I cambiamenti più consistenti si sono avuti nelle vigne più che nelle cantine, visto le numerose malattie importate dal nuovo mondo e causate da parassiti micidiali.

I vigneti Medioevali.
I vigneti Medioevali venivano piantati dove possibile scavando solchi profondi, e infilando nel terreno delle semplici talee dell’anno prima senza radici, ad ogni ettaro nel nord Europa venivano piantate circa ventimila piante, mentre nel sud erano più rade circa cinquemila. Non tutte le talee attecchivano e l’anno dopo gli spazi vuoti erano riempiti con talee coltivate in vivaio. Queste al momento dell’impianto avevano radici e si chiamavano barbatelle. Un altro modo per avere barbatelle era di interrare lunghi tralci delle piante già esistenti in modo da avere radici (margotta). La decisione importante riguardava la varietà da piantare, e la scelta cadeva nella scelta di mescolanze di varietà diverse per premunirsi contro la possibilità che uno o più raccolti andassero male. Ogni varietà aveva proprie caratteristiche, quindi c’erano viti che fiorivano tardi ed i frutti maturavano tardi, quindi in sede di vendemmia l’uva più matura cedeva zucchero e compensava la più acerba. La causa dei litigi tra padrone e fittavolo era dovuta alla necessità per i ricchi di avere del buon vino mentre i poveri ne volevano molto. Il vino bianco era considerato più pregiato del rosso ed i vini generalmente avevano un colore chiaro o rosso pallido. Il segnale dell’inizio della raccolta delle uve veniva dato dal proprietario della vigna, ma era anche controllata dai gendarmi comunali che sorvegliavano per ottenere buoni prodotti  da mettere in commercio nelle varie rivendite cittadine. Al segnale dato con trombe o campane tutti andavano a vendemmiare. Si calcolava che venti vendemmiatori potessero coprire un ettaro di vigne al giorno. Si faceva vino bianco vergine oppure per ottenere vino rosso si faceva bollire il mosto con le vinacce in tini molto profondi.

Si pigiava direttamente l’uva nel tino, e spesse volte il mosto iniziava subito a fermentare producendo anidride carbonica, questo certe volte causava la morte per asfissia dei pigiatori. Occorreva abilità per giudicare se fosse meglio lasciare tutti i graspi insieme ai frutti o lasciarne solo una parte, maggiori tannini conferivano maggiore acidità al vino ossia gli conferivano più sapore e carattere, ma poi durante la pressatura delle vinacce l’operazione era resa difficile dalle perti solide dei graspi. Nel Medioevo solo le tenute dei nobili possedevano un torchio per le vinacce, servivano ad estrarre dalle uve il quindi per cento in più di mosto in più (vino stretto). L’unico vantaggio era un maggior contenuto di tannino, che in ogni caso era tutt’altro che un pregio se il vino era fatto per essere bevuto subito. La trasformazione culturale  rinascimentale e la ricerca della lunga conservazione del vino imposero l’aggiunta ai mosti del vino di torchio: il tannino era sostanza indispensabile per il vino da invecchiamento. In età medioevale quando il vino aveva finito di fermentare l’unico scopo del produttore povero era quello di venderlo prima che andasse in aceto, quest’ultimo non aveva cantine dove stoccare il prodotto, in aggiunta le botti che possedevano era malridotte e perdevano, in ottobre poi faceva molto caldo ed i carrettieri durante il trasporto al mercato, avevano molta sete. Assodato che il vino medioevale era fatto in gran fretta spesso con una miscela di uve del tutto casuale e con conoscenze scarse ed inesistenti su come conservarlo, aveva però una grande considerazione da parte degli uomini medioevali. Nel liber de vinis  di  Arnaldo da Villanova, medico spagnolo, emerge l’originalità del trattato, presentava dei pareri medici sul vino, in aggiunta vi sono consigli sugli assaggi: gli assaggiatori dei vini possono proteggersi da trucchi assaggiando il vino al mattino dopo aver mangiato del pane intinto nell’acqua. I vini aromatizzati con rosmarino erano meravigliosi nel regolare l’appetito, esilarare l’anima, raddrizzare i tendini, rendere bello il viso e fare crescere i capelli, mantenersi giovani e pulire i denti. Arnaldo aveva l’idea che la venuta del Messia dovesse avvenire nel 1378, ciò portò una disputa con i domenicani che si affrettarono a bruciare il suo libro. Tra i domenicani (ordine mendicante), vi era un certo Goffedro di Waterford, che scrisse questi commenti sulla vernaccia: la vernaccia dell’Italia centrale è il migliore dei vini, perché la sua forza è temperata, si apre dolcemente quando entra nella bocca, saluta le narici e conforta il cervello, prendendo il palato gentilmente e con forza. Ed ancora, bere il vino giovane può provocare dolori al ventre, mentre quello che ha più di un anno è forse guasto. La scelta era decisamente limitata.
Il liber commodorum ruralium pubblicato nel 1303 da Pier de’ Crescenzi, è un libro che ebbe molto successo e fu letto e studiato per secoli, Crescenzi difendeva il vino di un anno, ne troppo giovane ne troppo vecchio, era un umanista leggeva Galeno ed i Classici greci e latini, adattandoli fedelmente ai vitigni medioevali. Ammise che il vino che proveniva dal nord basso di gradazione, doveva essere bevuto prima di quello del certo Italia.
Il catalano Francesc Eiximenis fu uno degli autori medioevali più severi, nella sua enciclopedia morale Lo Crestia, (il cristiano) nel terzo volume parlando dei peccati capitali pendendo in considerazione la gola introduce il tema sull’enologia. Solo la nazione Catalana era per lui di esempio alle altre nel modo di bere correttamente e con temperanza, rivolge critiche aspre agli Italiani che considera senza eccezione dei boriosi: quando devono lo fanno a poco a poco, ed in piccole quantità esaminando e riesaminando il vino, come fanno i medici con le urine, lo assaggiano ripetutamente, masticandolo tra i denti finchè lo devono tutto. Coloro che si soffermano pensano e rimuginano continuamente sul vino, pensando, scrivendo e parlando solo di questo; ne subiranno le conseguenze.
Nel 1308 la sede papale fu trasferita ad Avignone, per opera di Clemente V, la cattività avignonese, durò per circa settanta anni, mentre i papi avignonesi tutti francesi avevano una alta considerazione del vino della Borgogna. L’ordine cistercense era nato in Borgogna, ed i monaci oltre ai monasteri avevano contribuito ad espandere questo tipo di vino che si chiamava beurot (il pinot grigio attuale).

Torchi, Abbazia cistercense di Kloster Eberbach (Renania)
I cistercensi della Renania avevano importato i vitigni fromenteau (pinot grigio) o noirien (pinot nero) dalla Borgogna, scoprirono che la Renania era fatta per i vini bianche. Oggi questa regione è sinonimo di riesling, nessuno sa da dove sia venuto o se furono i cistercensi a portarcelo. Nel 1500 inaugurarono a Eberbach un’enorme botte capace di contenere settantamila litri di vino. Nel 1525 in piena riforma protestante i contadini diedero l’assalto alle cantine e nulla venne risparmiato.

Il chiostro e le Abbazie
Spicca come esempio fondante le vicende intraprese da Bernardo de Fontane nel 1112. Egli cambiò tutte le regole del gioco, fondò l’abbazia di Citeaux scegliendo di chiamarsi cistercensi, e si vestirono di bianco. Con i volontari quando un monastero arrivava a 60 monaci, dodici di loro dovevano partire per fondarne uno nuovo. Tanto era l’influenza dei frati bianche che papa Callisto II ordinò in punto di morte che il suo cuore venisse sepolto a Citeaux. Nel 1153, anno della morte di Bernardo egli e i suoi colleghi avevano fondato circa 400 abbazie. I monaci cistercensi nelle abbazie si ammazzavano di lavoro, la vita media era di circa ventotto anni.  Gli asceti erano istruiti ma buona parte del lavoro si svolgeva nel vigneto dell’abbazia.

Il 1500.
Fino al 1500 la coltivazione e la diversificazione delle uve era progredita speditamente, fin qui si era trattato di una semplice scelta tra vini leggeri, rinfrescanti e che non si conservavano bene, e vini forti, pregiati, alcolici, e relativamente durevoli. Il vino è stato una parte essenziale della dieta, ma da ora in poi non è più essenziale, la scelta delle bevande si fa più ampia, prende campo la birra mentre i bevitori diventano meno esigenti. Vi era un’altra tendenza, i ricchi cercarono l’ottimizzazione dei metodi, la ricerca costante e puntigliosa dei criteri per il raggiungimento di un prodotto perfetto, quindi un vino forte (che garantiva maggiori possibilità di conservazione) gradevole e generoso. Questo dualismo porterà ad una realtà reale contraddistinta da una doppia tendenza: il colto e ricco possidente, che da questo momento con la circolazione dei nuovi libri stampati diventa istruito, e il povero lavoratore che non ha la possibilità con la sola astuzia ed intelligenza di evolversi ed affermarsi.
La rivoluzione culturale porta anche innovative tecniche di approvvigionamento di acqua, gli acquedotti da questo momento fanno la loro prima comparsa nelle città più importanti. Con l’arrivo dell’acqua fresca, veniva a cadere la ragione principale per cui si bevevo vino, cioè per dissetarsi in modo salutare. Oltre a questo le scoperte del nuovo mondo portano anche rivoluzioni culturali e tecnologiche, con l‘alambicco ad esempio si fabbrica dalla metà del Cinquecento ‘l’aqua vite’. Ora vi erano mille ragioni per non bere più vino. Il tabacco ad esempio, importato dal nuovo mondo narcotico e sedativo. Le religioni dell’epoca non incoraggiavano certo il bere specialmente nell’Europa centrale dove il puritanesimo sarà particolarmente marcato scoraggerà decisamente l’uso e l’abuso del vino-alcool. Le convinzioni politiche e religiose non incoraggiavano a bere, nel nord Europa la birra fatta con luppolo orzo e acqua era per un olandese o un inglese, una bevanda naturale e facilmente ottenibile. Vi era il commercio dello cacao, una mescolanza di cacao, vaniglia, granoturco erbe e spezie Azeche, bevanda dei banchetti di Montezuma,  c’era il caffè ed il te (I viaggiatori europei incontrarono il caffè per la prima volta nel Cinquecento a Costantinopoli in Turchia). Queste novità prendono corpo e daranno origine a quello che gli storici hanno contraddistinto con il termine Rinascimento.
 

Da Arte e Alchimia nei discorsi di P.A.Mattioli di C.Milanesi edizione Terre di Siena, Siena, 2002.
Il XVI secolo in Occidente è caratterizzato da orientamenti intellettuali ed eventi storici, in grado di far sorgere nuovi eventi culturali che segnano la fine del Medioevo e l’inizio di una nuova fase della storia europea.
L’economia europea, l’agricoltura, l’artigianato, furono potenziati, i ceti nobiliari videro diminuire il loro potere per l’avanzamento dei ceti intermedi e per il rafforzamento degli apparati statali.
Le monarchie di Inghilterra, Spagna, Francia, affermarono la propria autorità all’interno e manifestarono una forza espansiva verso l’esterno. Lo spazio economico europeo si allargò alle Americhe in seguito alle scoperte geografiche. La formazione di una nuova economia mondiale ampliò la visione del mondo, ponendo i navigatori a contatto con uomini, animali e piante dai caratteri del tutto nuovi .
I nuovi mondi da poco scoperti, rivelano piante sconosciute quali mais, manioca, patata, fagiolo, pomodoro, zucca, avocado, ananas, cacao, tabacco, albero della gomma e animali mai visti come tacchini, lama, linci, puma, condor, tapiri, caimani. In carte e mappe del primo Cinquecento il nuovo mondo sembra abitato da Unicorni, Cinocefali, esseri mostruosi e deformi . L’affacciarsi di queste inedite o inesistenti entità biologiche nell’immaginario collettivo stimola un’indagine descrittiva delle caratteristiche morfologiche di questi esseri sconosciuti. Le prime rappresentazioni dell’Armadillo, del Tucano, del Camaleonte o del Rinoceronte rappresentano un momento di verifica scientifica nel processo di divulgazione dei nuovi esseri. Le enciclopedie zoologiche ed i trattati di medicina da poco formati, arricchiscono il loro apparato iconografico di innumerevoli immagini d’esseri umani, animali o vegetali mentre esseri antropomorfi, zoomorfi, fitomorfi divengono oggetto di dettagliate rappresentazioni . L’immaginifico popolare della civiltà medioevale è stimolato dalle scoperte dei nuovi esseri, vi è un senso di disorientamento tendente alla chiusura e al rifiuto delle nuove realtà, contrapposto al processo inarrestabile del “divenire delle cose naturali” di un mondo che cambia ogni giorno la propria fisionomia.
Una natura diversa da quella che appare familiare, costituisce interrogativi di difficile soluzione cui la narrazione biblica trovava difficili risposte.  La rivelazione dei “selvaggi barbari” delle nuove terre, indusse alcuni europei ad escludere per gli indiani la discendenza da Adamo mentre altri ad ammetterla. L’opinione pubblica del tempo era divisa tra una maggioranza attiva che guardava agli indiani con un senso di repulsione e diffidenza, ed una minoranza in grado di accettare quella travolgente rivoluzione culturale. Apparve vivida e interessante la discussione del buono o cattivo selvaggio pur restando fermo il carattere degenerato, inferiore e decaduto della natura del nuovo mondo; gli esseri che vi si aggiravano erano considerati deboli, piccoli, imbelli . Quest’ultima considerazione costituirà l’alibi europeo per agire nei confronti della sottospecie umana del nuovo mondo con ogni possibile e abominevole scelleratezza mentre dal punto di vista artistico l’inedito mondo, produrrà in campo pittorico, architettonico, scultoreo e naturalistico, realizzazioni singolari e interessanti.
Dal punto di vista culturale, ancor più importante fu la scissione della cristianità operata dalla riforma luterana, che traeva origine anche dall’esigenza umanistica di ristabilire l’autenticità del messaggio cristiano attraverso lo studio diretto dei testi sacri. La risposta cattolica alla sfida protestate si consolidò nel 1563 con la conclusione del concilio di Trento, accentrando tutti i poteri nella persona del pontefice, stabilendo la supremazia del clero sul laicato, cura pastorale e slancio missionario, vigilanza su ogni forma del pensiero e dell’arte.
In un mondo che si rivela ogni giorno diverso da come una tradizione millenaria lo aveva presentato, l’intero sistema conoscitivo entra in crisi, la Luna, ora è simile alla Terra, l’universo pare perdere ogni centro e confine, la Terra è costituita di continenti sconosciuti.  Il vuoto è colmato dalla ricerca e dalla sperimentazione, in un clima di tensione e dubbio che stimola la riflessione e cerca nuove basi per nuove certezze. Più si accentua la varietà delle esperienze, sempre meno le conoscenze tradizionali valgono a spiegare una realtà in evoluzione. La ricerca delle somiglianze nascoste che l’occhio dell’osservatore scopre tra settori apparentemente lontani tra loro, costituiscono una nuova rete di collegamenti. Soltanto il simbolo, come la metafora sembra riuscire a spiegare fenomeni sfuggenti, quest’artificio tecnico assieme all’allegoria, permetterà al letterato come all’artista o allo scienziato d’intuire ciò che i sensi e la ragione non erano più in grado di decifrare . Le attività empiriche, diventano la pratica manuale in grado di far fronte al “divenire della creatività dell’uomo”. L’uomo del tempo dispone d’enorme fiducia nei propri mezzi, il Cinquecento in occidente è il secolo dei grandi entusiasmi, della formazione di una diversa mentalità che spinge l’uomo colto a proiettarsi ed a porsi alla confluenza d’interessanti novità.
Sorge la domanda di come la creatività dell’uomo s’inserisca nel divenire delle cose naturali e di come il provenire dal nulla di ciò che è creato, si concili con la società del tempo. È utile percorrere il pensiero di Emanuele Severino nel tentativo di rilevare la grande importanza filosofica del nuovo orientamento.
Creare vuol dire suscitare qualcosa facendolo uscire dal nulla. La creazione è tale solo poiché innovazione assoluta di ciò che prima non era niente. Se esiste un Dio immutabile e creatore, inserito in una struttura eterna allora la creatività dell’uomo diventa impossibile. Tutto ciò che l’uomo può fare se esiste una struttura eterna è contemplare inerme il nulla, ma se l’uomo può creare deve esserci qualcosa che esce da un’obbedienza originaria alla legge eterna in cui consiste l’immutabile, quindi l’uomo è creatore e trae fuori le cose dal nulla ma se esiste un immutabile l’uomo non può essere creatore, ma se l’uomo è creatore e il divenire si concentra nell’uomo, non possono esserci strutture immutabili. Il divenire è un passare, il mondo del passato si costituisce rispetto alla creatività come qualche cosa di assoluto e immodificabile rispetto alla realtà. La volontà non può far nulla rispetto al passato che non può essere più modificato. Nel passato vi si accumula la massa di ciò che non può essere modificato dalla volontà, allora il passato costituisce rispetto alla volontà un regno che ripropone la struttura immutabile del Divino. Ma se è immutabile allora la volontà non può avere quel carattere di creatività che d’altra parte dai greci l’occidente riconosce al divenire .
Inizia una sorta di scetticismo nei confronti dei valori precostituiti, non è per ora una contrapposizione verso l’autorità divina, la volontà dell’uomo può gia sulla terra preparare la marcia di avvicinamento al perfezionamento del mondo adamitico decaduto, si afferma una visione del mondo che mostra la possibilità di una correlazione fra uomo e natura, in cui appare realizzabile il ricongiungimento alla “Madre materia”, improntato da valori diversi rispetto a quelli della tradizione filosofica greca e cristiana e che trova conforto nella pratica alchemica .

La vite di Mattioli
La vite. Cresceva spontanea nelle fitte foreste della Mesopotamia, zona da cui provengono anche i segni più antichi della sua coltivazione. È stata una delle prime essenze ad essere coltivata dall’uomo. In Italia la viticoltura ha origini antichissime, gli etruschi della Toscana e alto Lazio bevevano vino. La vera diffusione capillare e il perfezionamento della sua coltivazione avvenne durante l’impero romano, tanto da far definire la nostra penisola “Enotria tellus”, terra del vino. Per Mattioli la vite produce vino, la dolcezza del suo liquore costituisce un “sostentacolo della nostra vita”, ogni “villanello” è in grado di seguirne produzione e conservazione. Pericolosi sono i bruchi, ne mangiano “gli occhi” o germogli teneri appena emessi in primavera, piccoli animaletti fanno poi arricciare i pampini e li ingialliscono. Per evitare ciò, la potatura autunnale dei tralci è eseguita dal villanello con un falcino bagnato con sangue di “becco” (capra o montone maschio), o con una lama affilata con pelle di castoro. Nella vigna è sconsigliato piantare cavoli, questi sono diretti antagonisti della vite e del vino.
L’uva passa. Le uve appassite, sapientemente scelte, mediamente disidratate, erano usate per la cura del corpo umano ed anche per la produzione del vinsanto.
Il vinsanto è un vino liquoroso, l’origine del nome non è certa, probabilmente è legato ai tempi del ciclo produttivo dove per le feste d’Ognissanti, del Natale o della Settimana Santa, esperti coltivatori ne praticavano la spremitura o l’imbottigliamento. Le uve erano vendemmiate quando non avevano raggiunto un eccessivo grado di maturazione e le bucce degli acini risultavano più spesse e quindi più resistenti all’appassimento. Queste uve scelte, erano poste in ambienti ombrati e ventilati; per quest’operazione erano utilizzate delle stuoie di canna o cannicci, sulle quali i grappoli erano adagiati in modo che l’aria potesse circolare con facilità, l’umidità avrebbe favorito il marciume. La migliore disidratazione degli acini, portava una concentrazione zuccherina alta ed il vinsanto risultava dolce e gradevole. Al termine della fase di “appassimento” si procedeva allo “scattivamento” dove erano eliminati tutti gli acini guasti, poi lo “sgranellamento” separava gli acini dai raspi, infine si procedeva alla torchiatura. Il mosto ottenuto si presentava scuro e denso; prima di essere immesso in “caratelli” di legno di castagno, quercia o rovere, era passato al setaccio e decantato allo scopo di eliminare frammenti di raspo o semi. Alla fine del ciclo produttivo, sulle pareti dei caratelli rimaneva un residuo chiamato “madre”, composto di lieviti e fermenti che aiutavano il processo d’ossidazione. Lo spessore delle doghe dei caratelli, determinava la quantità di scambio d’aria con l’esterno nonché l’evaporazione dell’acqua attraverso le porosità del legno, che aumentava nei periodi di fermentazione. I cicli di fermentazione erano ripetuti dalle tre alle otto volte travasando il vinsanto da un caratello all’altro. Mattioli descrive le proprietà salutari legate all’uva appassita. “L’uva passa” è uva essiccata al sole, la disidratazione non ne altera le proprietà salutari; ingerita con i fiocini risulta “costrettiva” ed usata per la dissenteria, mentre “sfiocinata” diventa “lenitiva” per la tosse e per la pulizia dei reni.
L’aceto. Ha origini antichissime, originariamente era il prodotto della fermentazione acetica del vino, col tempo alcune regioni italiane raffinarono la preparazione spontanea dell’aceto sino a produrre e commercializzare il “balsamico”, ideale per cibi e pietanze ed anche per la cura del corpo umano. Il termine balsamico deriva dalle proprietà medicinali inizialmente attribuite a questo particolare aceto. Le zone di produzione erano situate nelle province di Modena e Reggio Emilia, ad esclusione dei territori montani ed appenninici. Se ne ipotizza una nascita casuale, probabilmente un certo quantitativo di mosto, la cosiddetta “Sapa”, dolcificante utilizzato anche in cucina, fu dimenticato in un vaso casalingo e ritrovato un po’ di tempo dopo quando già presentava segni d’avviata acetificazione. È di un certo Donizone, monaco benedettino vissuto fra l’undicesimo ed il dodicesimo secolo, la prima testimonianza scritta. La sua cronaca “Vita Mathildis”, racconta che in occasione di una sosta a Piacenza nell’anno 1046, il futuro Imperatore Enrico II di Franconia, mandò un suo messaggero al marchese Bonifacio di Canossa, padre di Matilde, “poiché voleva di quell’aceto che gli era stato lodato e che si faceva nella rocca di Canossa”. Nel racconto vi è la testimonianza di quanto quell’aceto fosse considerato importante al punto di farne dono ad un Imperatore che pur venendo da così lontano, ne conosceva l’esistenza. Lucrezia Borgia nel 1508, dando alla luce in Ferrara il figlio Ercole II, ne sperimentò le proprietà terapeutiche proprio al momento del parto. Durante la pestilenza, l’aceto serviva come “rimedio al contagio” o contro l’ammorbamento dell’aria: “preservarsi con abluzioni, con gargarismi, utilizzandolo come cordiale, come tonico, contro l’aria infetta lasciandone cadere alcune gocce sulle braci del camino”.
La materia prima per ottenere l’Aceto Balsamico era ottenuta dalle uve prodotte dai vitigni Trebbiano e Lambruschi. Il mosto di Trebbiano era particolarmente ricettivo all’insediamento di lieviti ed acetobatteri, ideale quindi alla produzione di aceti pregiati. La procedura necessaria per ottenere l’Aceto Balsamico passava attraverso quattro fasi fondamentali: la raccolta dell’uva, la pigiatura, la cottura del mosto e l’invecchiamento. La raccolta dell’uva era effettuata in autunno quando il rapporto fra zucchero ed acidità totale era più elevato. La scelta dei grappoli si effettuava in vigneti posti in zone salubri. Per garantire la perfetta integrità del grappolo prima della pigiatura, le uve erano riposte in cestini di vimini. Gli antichi produttori durante la pigiatura, si reggevano su due aste appoggiate sul terreno fuori dal tino per risultare più leggeri, oppure facevano eseguire la stessa operazione a bambini. Questo per ottenere un basso tenore di polifenoli, tannini, pigmenti coloranti, contenuti nelle parti solide del grappolo come bucce, vinaccioli, raspi, che rallentavano il processo di acetificazione. Il mosto filtrato e decantato, separato da sostanze solide e da impurità, era poi chiarificato. Il filtraggio si otteneva attraverso sacchi di fibra naturale che trattenevano le impurità. Un buon mosto si otteneva utilizzando uve ben mature, con un giusto rapporto fra valore zuccherino e acidità. La cottura del mosto doveva avvenire quasi contemporaneamente alla pigiatura o al massimo nelle ventiquattro ore successive, al fine di evitare che iniziasse la fermentazione alcolica. Il mosto era immesso a freddo in un paiolo di rame ed era cotto per diverse ore a fuoco diretto senza coperchi, fino a raggiungere una concentrazione ottimale. Le alte temperature di bollitura per lungo tempo erano sconsigliate onde evitare la “caramellizzazione” degli zuccheri che, concentrandosi, potevano dare quel tipico sapore di bruciato. Con un colino o mestolo bucato si schiumava le fecce che si formavano in superficie. I flaviandoli o leucoantociani, pigmenti contenuti nel mosto, durante la bollitura in ambiente acido si trasformavano in antociani, determinando la conseguente colorazione scura del liquido. Il contenuto zuccherino del mosto procurava un alimento ricco ai zycosaccharomyceti, che a loro volta producevano un abbondante nutrimento agli acetobatteri responsabili della trasformazione acetica. Il mosto cotto, dopo essere stato raffreddato in mastelli di legno, era stivato per diversi mesi al fine di decantare fecce e mucillagini. La fase dell’invecchiamento era forse la più delicata e personale, erano seguite scrupolosamente certe regole il più delle volte tramandate solo oralmente di generazione in generazione . Per Mattioli l’aceto è usato come condimento dei cibi; il “valoroso” è condensato in un vaso di rame sotto il calore solare, il “costrettivo” è derivato dal lambrusco. Usato come condimento è acido, il “succhio” presente lo rende anche adatto ad “infrigidisce” i morbi caldi del corpo umano.
Il vino. L’uomo si nutriva delle bacche e del loro succo; probabilmente un nostro antenato dimenticò del succo d’uva in un recipiente e si accorse che in questo modo le caratteristiche gustative erano modificate. Il consumo da parte dell’uomo di questo succo fermentato, dava origine a strane e piacevoli modificazioni del carattere, che diventava allegro e disponibile alla convivialità. Parlare di vino significa certamente parlare della civiltà e della cultura dell’uomo, dell’inizio dei commerci e delle relazioni tra paesi diversi. Dopo la raccolta manuale, le uve immesse in grandi “tini” erano macerate per due settimane a temperature ambienti, e comunque non inferiore ai venti gradi centigradi. Al termine della fermentazione, il succo era riposto in botti di rovere o castagno dove completava la fermentazione. Qui sostava sino a dicembre nel caso del “novello”, o sino alla maturazione ottimale stabilita per tradizione al plenilunio del terzo mese del nuovo anno. Successivamente il nuovo vino era affinato in botti poste in ambienti sotterranei, con temperatura costante e per circa otto mesi. Il vino rosso è di colore rubino profondo, profumo intenso con sottofondo di frutta matura e giaggiolo, sapore pieno ed armonico. Ogni vino possiede dei profumi caratteristici che possono derivargli dall’uva, dalla fermentazione e dall’invecchiamento. I “sentori” rilevabili nei diversi vini sono centinaia, ma alcuni sono caratteristici di determinate uve, di certe zone vitivinicole e di certi vini. I vini bianchi profumano di fiori bianchi e frutta gialla; il Prosecco profuma di pera, lo Chardonnay di ananas, il Moscato di limoncello, il Sauvignon di foglie di pomodoro, il Tocai di mandorla amara, il Moscato di salvia. Mattioli nel suo trattato descrive il vino:
“è un sanissimo liquore, sostiene la nostra vita, rigeneratore degli spiriti, rallegratore del cuore, restauratore potentissimo di tutte le facoltà e operazioni corporali, si chiama meritatamente vite la pianta preziosissima che lo produce ma non però per questo piglino ardire gli ebbriachi” .
Bevuto in modo equilibrato genera buon sangue, si converte presto in nutrimento, aumenta la digestione, rasserena l’intelletto, vinifica gli spiriti, caccia la ventosità, provoca l’urina, ma bevuto senza modestia “infrigidisce” il calore naturale del corpo umano, come è soffocato un piccolo fuoco con una grande quantità di legna. Nuoce al cervello, alla nuca, ai nervi, causa l’epilessia, corrompe i buoni e lodevoli costumi, i grandi bevitori di vino diventano “cianciatori”, lussuriosi, giocatori, furiosi, disonesti ed “homicidiali”. Guasta la memoria, ma afferma Mattioli, non farò altri commenti:
“ per non mi far del tutto malevoli gli ebbriachi” .
Il vino è indicato per temperare la “frigidità” degli anziani, mentre è sconsigliato ai giovani perché sarebbe aggiungere fuoco al fuoco. La conservazione e l’uso del vino ghiacciato può causare malattie e intossicazioni.

Il vino a Corte.
Lorenzo il Magnifico in Toscana amò profondamente i cibi gustosi e i buoni vini. Nel 1469 il due Giugno sposò Clarice Orsini. I fiorentini furono ammirati dalle tante vivande preparate per l’occasione, vi erano intere botti di malvasia e trebbiano, collocati e raffreddati in appositi rinfrescatoi riempiti di acqua presa da pozzi e rinnovata continuamente. I rinfrescatoi erano ampi vassoi in terracotta, l’unico materiale in grado di conservare più a lungo la freschezza dell’acuq a e comunicarla ai bicchieri ed al loro contenuto. Il Magnifico in gioventù frequentava numerose osterie tra cui il Buco, il Fico, le Bertucce. I cupi anni del Savonarola di fine Quattrocento avevano dissolto i piaceri della tavola e della spensieratezza, ma con la sua morte la piacevolezza del vivere aveva fatto ritorno a Firenze. Nel 1513, l’ascesa al pontificato di Giovanni dei Medici con il nome di Leone X, poi con Giulio nel 1523 con il nome Clemente VII consacrò definitivamente la prestigiosa famiglia fiorentina. Dopo l’uccisione del Principe Alessandro da parte di Lorenzino de’ Medici nel 1537 raggiunse il vertice del potere Cosimo I, figlio di Giovanni dalle bande nere ramo cadetto e Maria Salviati discendente dalla stessa famiglia ma dal ramo principale. Il matrimonio di Cosimo I con Eleonora di Toledo, consolidò l’alleanza con il grande Imperatore Carlo V, tra l’altro incoronato a Bologna Imperatore del Sacro Romano Impero nel 1530 proprio da Clemente VII: Il matrimonio fu celebrato nel 1539 nel palazzo di via Larga a Firenze, e fu celebrato da memorabili convivi. Cosimo stava per divenire il Principe incontrastato di quello che di li a poco si sarebbe chiamato Granducato,  la cosa gli riuscirà dal 1555 dopo la caduta di Siena ultima repubblica oligarchica, ma era dal 1542 che oramai la famiglia Medici si era trasferita definitivamente all’interno palazzo pubblico fiorentino, da questo momento la struttura sarà adattata all’alloggiamento di tutta la corte medicea, compariranno camere e bagni, sale di ricevimento e saloni per i numerosi convivi che vi si svolgevano. Il grande salone dei cinquecento dove Savonarola insieme appunto a circa cinquecento parlamentari, gestiva la repubblica di Firenze. Vasari realizzò dal 1541 la trasformazione del salone in un’aula regia di rappresentanza.

Ricchi banchetti accompagnavano i festeggiamenti, a tal proposito Mattioli rivolgendosi a Principi ed Imperatori consiglia di:
“procurino di tenere tal vita cristiana, e morigerata, cosi diritta giustizia che tutti i sudditi gli habbiano in venerazione, e insiememente gli animo, e gli temano, e poscia, che cerchino d’havere i ministri, per le mani hanno da passare le vivande loro, nobili, ben nati, fedeli, non avari, non invidiosi […]  tenegli del continuo remunerati di non piccoli benefici […] perciochè (come si dice) non solamente placano i doni gli uomini del mondo.
Potremmo scambiare questi scritti con quelli di Niccolò Machiavelli esposti nel Principe, Mattioli nel VI° libro del suo trattato sui veleni, suggerisce ai nobili inevitabilmente esposti al grave rischio d’avvelenamento, di coltivare amicizie fidate, sudditi nobili, di sani principi, ben pagati, non corruttibili e fedeli.
Nelle corti principesche del Cinquecento, erano presenti numerosi “trinciatori” tutti d’estrazione nobile, essi avevano il compito di sezionare ed assaggiare personalmente le portate destinate alla corte. Possiamo immaginare i trinciatori, intenti alla cura, alla gestione, al controllo di cibi e bevande, il metodo di lavorazione e il personale addetto alla cucina. La carne ben frollata anche settimane, cotta, impepata ed aromatizzata era esibita in pubblico e tra i commensali, il nobile con un coltello affilatissimo sezionava bocconi prelibati destinati al principe, vi sfregava sopra del pane, poi sotto gli occhi di tutti gli invitati, mangiava il boccone intinto di salsa. Numerosi pranzi erano allestiti frequentemente nel gran salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze sotto Cosimo I. Sembra che tale pratica abbia poi portato alla rivalutazione classica ed all’espansione del teatro moderno. Vi erano organizzati mirabili banchetti con credenze cariche d’argenterie e serviti preziosi, di fronte vi si ergeva il baldacchino per la mensa reale, ai lati i commensali invitati alla libagione, nei loggiati sovrastanti si affacciavano invitati di secondo ordine. Al termine della cena portentose macchine trasformavano lo scenario; il desco dei commensali diventava luogo di spettacolo, attori, musiche e danze allietavano il Principe.

L’umanesimo del vino
Il periodo tra il Trecento e il Cinquecento fu caratterizzato dall'Umanesimo, un grande movimento culturale che si sviluppò in Italia a partire dalla fine del XIV sec. e si diffusero in tutta Europa. L'Umanesimo è l'interesse per l'antichità greco-romana e per lo studio dell'uomo, della storia e della natura. Il Rinascimento fu considerato una "rinascita" della civiltà dopo i quasi mille anni di crisi che erano seguiti alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente. In questo secolo si svilupparono gli studi e le scienze. Questo sviluppo si diffuse grazie anche all'invenzione della stampa. La coscienza del distacco dal Medioevo, ritenuto troppo primitivo e barbarico, rendeva sempre più viva l'ammirazione per l'età classica nel campo delle lettere e delle arti. La cultura nel Medioevo si era basata sulle Divinae Litterae, cioè sulle Sacre Scritture e sulle opere di contenuto religioso, la cultura dell'età nuova tende invece a fondarsi sullo studio delle Humanae Litterae, delle opere di origine classica: nasce così l'Umanesimo e da esso quello straordinario periodo che comprende l'ultima parte del Quattrocento e tutto il Cinquecento e che è detto Rinascimento: nel corso di esso sembra "rinascere" la civiltà classica rivissuta e ripensata in maniera moderna, protesa alla liberazione dello spirito, allo sviluppo della personalità umana e un più intenso desiderio di vivere e di godere. I centri dell'Umanesimo e del Rinascimento erano da ricercarsi nelle città, nelle corti dei principi e nelle accademie ovvero in quelle associazioni di letterati, scienziati e filosofi, che si riunivano per discutere tra loro dei più complessi e diversi problemi. Nel Medioevo amavano le riunioni festose, i balli, i banchetti, ma tutte queste cose erano considerate poco importanti, visto che la vita dell'uomo doveva servire soprattutto a conquistare il paradiso con penitenze e preghiere. Nel Rinascimento queste manifestazioni si raffinarono e si perfezionarono, acquistano un nuovo significato e vennero usate come mezzo per vivere un'esistenza più felice su questa terra. I principi facevano a gara nell'accogliere e nel favorire letterati e filosofi, artisti e scienziati e nel praticare il mecenatismo sull'esempio di Mecenate, consigliere dell'imperatore Augusto e protettore delle lettere e delle arti. Firenze, Milano, Venezia e Roma divennero famose come centri di cultura e di rinnovamento, ma anche città più piccole come Urbino, Mantova e Ferrara sedi di corti, diedero ospitalità agli uomini più grandi del tempo. A questo proposito, Vespasiano Da Bisticci (1421-?; fu impegnato soprattutto nella compravendita di manoscritti; autore dell'opera Vite d'uomini illustri del XV secolo) scrisse: "Nicolò Niccoli ebbe come sua fondamentale preoccupazione quella di possedere una grandissima quantità di libri: né, per soddisfare questo suo desiderio, guardò a spese. Quando veniva a sapere che ve n'era qualcuno in un determinato luogo, ricorreva ad ogni mezzo per riuscire a procurarselo. E tutti li comperò con le sostanze che il padre gli aveva lasciato, impegnando persino il ricavato della vendita di alcuni poderi di sua proprietà. Esortava tutti i giovani fiorentini, che riconosceva dotati di ingegno, a darsi allo studio delle lettere, mostrando loro i vantaggi che ne avrebbero ottenuto: moltissimi infatti presero quella via grazie all'opera di persuasione fatta dal Niccoli, il quale se li sapeva privi di libri e di maestri li provvedeva di tutto. Avendo messo in libri tutto quello che aveva potuto, le sue sostanze non gli bastavano per vivere sia pure molto modestamente, secondo la sua condizione; per questa ragione Cosimo I de' Medici ordinò agli impiegati del banco che ogni volta che Niccolò avesse mandato a chiedere del denaro glielo dessero e mettessero la somma riscossa sul loro conto...Niccolò aveva sempre piena la casa di uomini singolari e dei primi giovani della città; né si dimentichi che i forestieri, i quali venivano a Firenze in quel periodo, se non fossero andati a casa di Niccolò e non l'avessero visitato, ritenevano di non essere stati a Firenze. "
Sulle spinte dell’insaziabile sete di sapere anche l’agricoltura e la coltivazione della vite stava “rinascendo”, a Firenze Luigi Alamanni scriveva trattati per la potatura delle viti e per ottenere vino in gran quantità, mentre Monsignor Giovanni della Casa (1550-1555), scrisse un trattato, il Galateo, sulla "buona creanza" e sul corretto comportamento. Questo importante testo, ha influenzato i costumi di gran parte della società occidentale degli ultimi secoli. Il termine "galateo" deriva da Galeazzo (Galatheus) Florimonte, il vescovo di Sessa che aveva suggerito a Monsignor Giovanni della Casa di scrivere il trattato. "L'eleganza del comportamento è conseguenza di un sereno dominio delle inclinazioni naturali..." - Giovanni della Casa.
Sulla scia dei nuovi orientamenti culturali, l’agricoltura toscana attraversò un periodo di intensa trasformazione, vi fu un regresso della coltivazione cerealicola, e si registrò un aumento dei terreni lavorati a vite. L’espansione della vite fu influenzato dal calo demografico e dal prezzo dei cereali, mentre le nuove tecniche di coltivazione viticola crearono i presupposti per un prodotto a lunga conservazione, di migliore fattura che fecero incrementare la coltivazione ed il prezzo del vino. Numerosi possidenti investirono i oro averi in terre e fattorie, divenendo proprietari fondiari, cercarono di incentivare i lavori agricoli dei contadini migliorando i patti colonici. Da questo momento si diffusero le prime conduzioni mezzadrili. I rinnovati testi di agricoltura, trattavano il modo di coltivare efficacemente la vite, la migliore soluzione fu quella di tenere le viti alte ed aggrappate ad un albero tutore (generalmente era un acero campestre o testucchio), questo determinava nella vite l’irrobustimento del tronco e delle sue radici, ed una migliore esposizione per la maturazione delle uve. Il vino toscano divenne rinomato in tutta Europa. Quelli più ricercati erano i forti, rossi e vermigli come il rosso di Montepulciano,  ed alcuni bianchi secchi come la Malvasia o la Vernaccia. Andrea Bacci, medico e naturalista, nella sua De naturali vinorum historia,  edita nel 1596, decanta i vini bianchi e soprattutto i rossi dei Colli del Chianti, “robusti e buoni; nel senese, in quei luoghi difesi dai venti boreali, i vini sono i migliori, specialmente quelli lungo l’Arbia, Pontignano, Vignano, Sovicille, e delle colline intorno a Siena”. Nello stesso tempo vi era la consapevolezza della cattiva qualità dei vini di pianura, per la “nebulosità dell’aria, la pingue qualità del suolo, le paludi”. Anche il trebbiano era un vino molto rinomato nel periodo rinascimentale, lo stesso Poliziano, e Lorenzo il Magnifico lo elogiavano spesso. Pittori come Paolo Uccello, Benozzo Bozzoli, Domenico Ghirlandaio, iniziano ad inserire nei loro lavori riproduzioni di bottiglie, uve, bicchieri e vini. Con il bando fiorentino del 1579, il fiasco  doveva contenere “mezzo quarto di vino”. L’esattezza della misura era contraddistinta da un apposito timbro dell’autorità granducale.

Contadini, potenti e monaci
Il cibo ha avuto un ruolo centrale nella storia dell’umanità. Parlare dell’alimentazione nel Medioevo significa affrontare un aspetto fondamentale della società del periodo, in cui a brevi fasi d’abbondanza si alternano periodi di carestia. Il forte senso di insicurezza, di precarietà e di paura che pervade gran parte di questa fase storica crea un atteggiamento nei confronti del cibo molto particolare. E, in effetti, esso diviene un vero e proprio status symbol: chi mangia ha potere, e mangiare per chi è affamato significa compiere un’azione esagerata, vorace, quasi violenta. I religiosi possono mangiare ma si autoreprimono, secondo la dottrina cristiana che stigmatizza la gula tra i peccati: l’alternanza di privazione e abbondanza accresce, come afferma lo studioso Leo Moulin, "l’ossessione del cibo, l’importanza del mangiare e, come contropartita, la sofferenza (e i meriti) rappresentati dalle mortificazioni alimentari". Durante il Medioevo non solo il cibo, come dice lo storico Massimo Montanari ma "anche la fame diventa oggetto di privilegio".
Il cibo dei contadini
È dopo il Mille che la ricerca del cibo diviene più difficile: l’aumento considerevole di popolazione, la diminuzione delle aree da mettere a coltura, la sempre più invasiva presenza sul territorio delle bannalità signorili, come riserve di pascolo, di caccia e di pesca, rende la vita dura ai contadini. La carne scarseggia, diviene sempre più pregiata, sinonimo di abbondanza e di prosperità. I pochi animali domestici sono considerati bestie da fatica, essenziali per svolgere il gravoso lavoro nei campi. Aumenta quindi il consumo di cereali, dalla segale al grano saraceno: il termine companatico, che si diffonde proprio in questo periodo, sta a indicare il condimento, ciò che accompagna il pasto basato ormai quasi esclusivamente sul pane.
Esso è presente a ogni pasto, di tutte le varietà e colori: d’orzo, di spelta, di segale, di castagne. Spesso, la tonalità differente indica l’appartenenza a una precisa fascia sociale, oppure a una certa area geografica. Nei centri urbani, invece, si diffonde l’uso del pane di grano duro, più chiaro di quello mangiato nelle campagne. Il vino, secondo la tradizione greco-romana, rimane un alimento diffuso anche tra le classi più povere: è nutriente, rende più allegri, si può usare come anestetico, tutti ottimi motivi perché anche i ceti privilegiati ne favoriscano il consumo.
La tavola di chi vive dei prodotti della terra non può non prevedere la presenza delle verdure dell’orto, dal cavolo alle zucchine, dalle cipolle agli spinaci. Piatto consueto sono, infatti, le zuppe di verdure di stagione, spesso mescolate ai legumi: ceci, fave, lenticchie, facili da essiccare e ricche di proteine, accompagnano frequentemente i pasti sostituendosi alla carne. Essa, in prevalenza bianca, è destinata ai giorni di festa: polli, galline, qualche coniglio rappresentano l’unica variante più sostanziosa per la classe dei lavoratori della terra. Le erbe aromatiche, tipiche dell’area mediterranea, dal timo al rosmarino, dalla nepitella al basilico, insieme al poco grasso e all’olio arricchiscono queste semplici pietanze, che stanno alla base dell’alimentazione contadina.
Il cibo dei potenti
Una delle rappresentazioni tipiche della società signorile medievale è il momento del banchetto. Sulla tavola imbandita, diverse qualità di carni arrostite stanno a indicare il cibo preferito dal ceto nobiliare, dai potenti che giudicano una debolezza l’astensione volontaria, segno di umiliazione e di perdita del proprio rango: nei documenti dell’epoca, essa equivale all’obbligo di deporre le armi e quindi a una totale perdita d’identità. Del resto, lo stesso Carlo Magno, stando al suo biografo Eginardo, è mangiatore quotidiano di arrosti, nonostante in tarda età soffra di gotta e i medici gli consiglino di passare a piatti più leggeri.
Attraverso i libri di contabilità del tempo che ci sono pervenuti, siamo in grado di mettere a fuoco un mondo di aristocratici abituato a bere abitualmente vino, ad accompagnare le carni saporite bianche - capponi, oche, galline, polli - e rosse - manzo, maiale - ma in special modo la selvaggina e gli agnelli con pane di grano, uova e formaggi. Le verdure e i legumi, sconsigliati dai medici del tempo agli stomaci raffinati in quanto poco digeribili, hanno un ruolo marginale sulle tavole dei ricchi, così come la frutta.
Il miele, unico dolcificante conosciuto - lo zucchero di provenienza araba non è ancora diffuso - è invece consumato in abbondanza. La modalità di cottura più diffusa è la bollitura, che utilizza molte spezie provenienti dalle Indie come il pepe, il coriandolo, la cannella, la noce moscata, i chiodi di garofano, ormai difficili da trovare e assai costose, che insaporiscono i cibi e le bevande, ritardano la putrefazione e addolciscono i sapori aciduli. Anche le erbe aromatiche sono molto in uso: in questo modo la carne, soprattutto selvaggina, dai cervi ai caprioli, dalle anatre ai fagiani, diviene meno dura e acquista maggiore sapore, anche perché accompagnata spesso dal lardo. Gli stessi arrosti sono prima bolliti, e solo in un secondo tempo vengono fatti a pezzi e infilzati nello spiedo.
Il cibo dei monaci
L’idea della privazione del cibo, di un regime alimentare sorvegliato ed essenziale sta alla base della concezione di vita monastica diffusa nel Medioevo. Proprio per questo, in tutte le Regule che ci sono pervenute, da quella di Benedetto a quella di Giovanni Cassiano, il tema del cibo ricorre costantemente e risulta di fondamentale importanza. Se l’abbondanza di cibo è simbolo del potere delle armi, il "digiuno" diviene sinonimo di spiritualità e misticismo. Nella cultura medievale, il corpo impedisce l’elevazione verso dio, tenendo ancorato l’uomo a desideri e pulsioni che vanno costantemente mortificati. La carne è il primo alimento che deve essere bandito, perché meglio interpreta la forza e la potenza guerriera. In realtà, questo vale per il primo monachesimo, più severo e rigoroso nel rispettare i precetti dell’ordine.
La carne, bandita dunque inizialmente dalle mense e sostituita da pesce, legumi, uova e formaggi, tende a ricomparire a partire dall’XI secolo, anche perché più consistente comincia a essere la presenza del ceto aristocratico tra i religiosi. Nei giorni di festa, che non sono pochi nel calendario liturgico, la carne, soprattutto di maiale, è presente nei pasti dei monaci cucinata in maniera differente. Compare anche nelle dispense, conservata sotto sale, essiccata o insaccata. Stando alle fonti dell’epoca, nell’Abbazia di Cluny, una delle più importanti dell’Occidente cristiano, due sono i regimi alimentari che si alternano durante l’anno, uno invernale e uno estivo. Mangiare coincide con un momento collettivo, e i monaci si ritrovano in refettorio una volta nei giorni feriali e due in quelli festivi.
Il pranzo, che coincide con il mezzogiorno, prevede due piatti caldi: il potagium di legumi e la minestra di verdura, e un terzo piatto, il generale o la pietanza, serviti a giorni alterni durante la settimana, che porta in tavola uova, formaggi, verdure. Il vino e il pane bianco non mancano mai. Nel periodo estivo i pasti sono due, poiché aumentano le ore di veglia e di lavoro. La cena, piuttosto frugale, si basa su ciò che resta del pranzo insieme ad un pò di frutta di stagione.
Dopo il Mille, questo regime così severo tende poco alla volta a divenire più elastico: si moltiplicano le cose da fare, le occupazioni da svolgere, soprattutto di tipo amministrativo. I patrimoni da gestire si accrescono, in seguito agli imponenti lasciti testamentari, ai possedimenti che si espandono e che allontanano il monaco dalla dimensione frugale e semplice cui è abituato, dettata dalla regola del proprio ordine. Così il momento del pasto e il regime alimentare si modificano: la semplicità delle origini è superata, per lasciare spazio all'abbondanza e alla varietà dei cibi. Le cucine, sempre più spaziose e dalle dispense cariche di prodotti pregiati, divengono luogo di prosperità, di piacere: la gula si incontra con la luxuria, i due peccati condannati dal cristianesimo che tanto spesso l'immaginario medievale accomuna, così come tanta letteratura del tempo, da Chaucer a Boccaccio, ci ha tramandato.

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