SEMICERCHIO Rivista di poesia comparata
Firenze, pp. 176, Le Lettere, € 22
Vol. XXIV-XXV: |
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La
natura è un elemento centrale nella poesia persiana sin dai suoi albori; la
sua rappresentazione, le valenze metaforiche o simboliche ad essa attribuite
hanno però conosciuto un arricchimento e una lenta evoluzione grazie al connubio
della poesia con la sensibilità mistica sufi. Nel presente lavoro cercheremo
di illustrare questa evoluzione toccando le tappe più importanti del percorso
letterario e presentando alcuni testi a nostro avviso rappresentativi della
produzione poetica mistica. Tali testi sono tratti dai canzonieri di 5 poeti
medievali e coprono la nascita, lo sviluppo e l’apice della lirica sufi neopersiana.
La
poesia neopersiana nasce nel IX secolo come esperimento letterario di un’élite
di corte volto a creare composizioni in lingua persiana secondo modelli arabi.
La prima tra le corti ad attrarre attorno a sé una grande pleiade di poeti
è la corte ghaznavide di Sultân Mahmud: ad essa appartengono, fra gli altri,
il “re dei poeti” ‘Onsori (m. 1040 o 1049), il celebre Farrokhi (m. 1038)
e il poeta epico Ferdousi (m. 1021 o 1026).
I
primi due portano alla perfezione soprattutto la forma poetica della qaside, composizione monorime di lunghezza
variabile tra i 15 e i 200 versi e dai contenuti prevalentemente panegiristici.
La struttura tipica di questa composizione prevede un insieme di sezioni trattanti
ciascuna temi diversi: di esse la più interessante dal punto di vista estetico
è senz’altro la prima, il nasib,
in cui il poeta solitamente descrive la primavera o le feste (come il Capodanno
- Nouruz), loda il vino o piange
la separazione dall’amato.
Le
qaside di poeti quali ‘Onsori e
Farrokhi sono ricche di descrizioni del mondo naturale, ma queste si caratterizzano
soprattutto per staticità e mancanza di valenze simboliche. Il paesaggio naturale,
che consiste per lo più nelle immagini di un giardino di corte, è sì rappresentato
con metafore, ma utilizzate dai poeti solo a scopo descrittivo/comparativo;
si paragonano ad esempio il giardino alla seta, le foglie d’autunno a tavolette
di rubino, lo stagno ad uno specchio, ecc. rimanendo su un piano decorativo/denotativo
che manca di un approfondimento psicologico e di un arricchimento dei significati
attraverso l’uso di simboli e allegorie.
Ecco
un esempio di nasib, tratto dal
canzoniere di Farrokhi, in cui il poeta descrive un giardino al momento dell’arrivo
della stagione fredda:
Ha sollevato l’aria un velo azzurro,
l’orto ha piegato il tappeto di seta,
lo stagno ha fatto turchine le guance,
il cielo è diventato argenteo in volto.
Se spruzzi acqua nell’aria, si congela,
come fosse cristallo sminuzzato,
le verdi foglie agli alberi in giardino
son tavolette di giallo rubino.
Spoglio si è fatto il parco verdeggiante
da quando il corvo ha preso a gracidare:
non può cantare il musico infelice
nel convito ove gioie non vi sono.
Se la foglia dell’albero non ama,
perché ha la schiena curva e il volto giallo?
Chi ha dato al vento sottile magia?
L’erba converte il limatura d’oro!
Che fa, se gialla è diventata l’erba?
Rosea e florida guancia ha il mio signore!
(Traduzione di R. Bargigli)
[1]
Nel
XII secolo la poesia persiana inizia però un nuovo corso grazie all’incontro
con il sufismo. I poeti sufi, sin dall’inizio, adattano ai loro scopi le forme
poetiche preesistenti, mantenendone intatte numerose caratteristiche. Questo
fenomeno causa problemi di distinzione fra poesia cortese e poesia mistica
portando con sé questioni di tipo interpretativo: ne sono testimonianza le
controversie che circondano la lettura in chiave “terrena” oppure “mistica”
delle composizioni di alcuni dei più famosi poeti persiani, tra cui il caso
più emblematico è senz’altro quello di Hâfez (m. 1390).
[2]
La
poesia mistica si esprime attraverso numerose forme: quella della qaside, di cui abbiamo parlato in precedenza,
quella del masnavi, poema più o
meno lungo di natura didattica o narrativa; quella della quartina o robâ’i, e quella del ghazal, componimento di circa 5-15 versi
dedicato in prevalenza a tematiche amorose. La produzione è dunque vastissima,
anche perché molto spesso i maggiori autori mistici della letteratura persiana
hanno praticato quasi tutte queste forme, come ad esempio Sanâ’i (m. 1131),
(m. ca. 1199), ‘Attâr (m. 1230.), Rumi (m. 1273), Sa’di (m. 1291) e Jâmi (m.
1492). I nomi da citare sarebbero senza dubbio ancora numerosi, poiché la
mistica arriva a permeare praticamente tutta la produzione letteraria di Persia;
in questa sede ci limiteremo però a fornire solamente i dati di maggior rilievo,
dedicando la nostra attenzione soprattutto alla rappresentazione e alla simbologia
degli elementi del mondo naturale.
Per
quanto concerne i masnavi didattici,
uno dei primi autori ad utilizzare metafore e simboli tratti dal mondo naturale
è Sanâ’i.
[3]
Nel suo masnavi
Seyr al-‘Ebâd ela ‘l-Ma‘âd (Viaggio
dei servi di Dio nel regno dei fini) il poeta esordisce infatti con un’invocazione
al vento (bâd), un simbolo frequente
nella poesia persiana per rappresentare l’idea del messaggio, talvolta anche
divino, che giunge alle orecchie del mistico. In questo caso il poeta esorta
il vento ad abbandonare le proprie normali funzioni e ad ascoltare le sue
parole, ovvero il racconto di ciò che Sanâ’i chiama la “visione” della propria
“creazione”:
Salve o messaggero imperiale, che trono
hai d’Acqua e di Fuoco corona!
Sei il Tappezziere della terra, ma di terra
non sei, e sei il Pittore dell’acqua, ma non sei fatto d’acqua.
Nella sorte fausta e nell’infausta, tu le
nubi sospingi e guidi i vascelli.
Con te in virtù del materiale principio
ha incessante commercio lo spirito animale.
Per tua virtù il fuoco e come messe corallina
e l’acqua è simile a corazza di smeraldo.
Tu dei giardini sei il volto e il sostegno,
delle piante tu sei la nutrice e l’amante.
Sei causa dell’arido e portatore dell’umido,
sei il padre di Gesù e il cavallo di Jamshid.
[4]
Liberamente tu soffi sul volto del mare
e simile lo rendi alle squame di un pesce.
Pur umile tu somigli allo Spirito, sei a
tutti invisibile, eppur sei presente.
T’innalzi sino all’Etere ma non lo superi,
vagabondi per l’Oceano ma senza bagnarti.
L’incedere delle creature ha il ritmo del
tuo passo, private di te, la loro casa ha il tuo nome.
Sei calamo che disegna il moto della conoscenza,
sei la prima tavola in cui s’imprimono le parole.
Avanzi senza paura al pari della morte,
per questo hai libero accesso ad ogni casa.
Tu sei creatore, n’è prova la tua magnificenza
e sei creatura, giacché soggiaci al mutamento.
Nel sepolcro d’argilla, nella bara di fuoco,
dispensi a quest’anima vigore e nutrimento.
Ascendi alla corona celeste, discendi sul
trono terreno, or ti muti in verzura, or in eterea essenza.
Per te il manto si schiude sul corpo della
rosa, il colletto dei cipressi e la veste dei fiori.
Innalzi padiglioni sulla superficie del
mare e il capo sollevi alle altezze dell’Etere.
A primavera i germogli trai dalla terra,
l’inverno dall’acqua trai cristalli di ghiaccio.
La freccia della gemma tu scocchi alla sua
meta e ami pettinare le fronde del bosso.
Ora sei il servo che confabula nei vicoli,
ora sei il pittore dei volti del creato.
Fino a quando vagherai, così senza regola,
mescolandoti alle compagnie dei giocolieri?
Fino a quando dovrai trarre vigore dai vili
o sarai galleria di esseri indegni?
Or s’è vero che vaghi per monti e deserti
e sai misurare i quartieri del mondo,
Se è vero che voli agilmente tra le vette
e gli abissi dell’orbe terrestre
Libera allora, o natura angelica, dalla
morsa dell’Acqua e del Fuoco
A calci prendi e l’Etere e il Mare, e innalza
le tue tende sulla corona delle Pleiadi!
Per un istante, dalla lingua della mia visione
ascolta l’Arcano della mia creazione.
Chiunque non è ad esso iniziato, sappilo,
non può avere altro nome che quello di “vento”.
(traduzione di C. Saccone)
[5]
Dopo
Sanâ’i è ‘Attâr, con il suo noto masnavi
Manteq al-Teyr (Il verbo degli uccelli)
[6]
ad utilizzare simboli naturali per rappresentare concetti
mistico-religiosi: il poema consiste infatti in un’allegoria del cammino mistico
verso l’unione con Dio che vede come protagonisti gli uccelli. Questi ultimi,
che ‘Attâr fa assurgere a simbolo dell’animo umano, decidono di compiere un
viaggio per trovare il misterioso uccello Simorgh che vive ai confini del
mondo, coperto da veli di luce e tenebra, e farne il loro sovrano; il percorso
è lungo e difficoltoso, e alla fine di esso gli uccelli si ritrovano soltanto
in trenta; ammessi alla visione del Simorgh, essi scoprono ciò che già presagiva
il nome stesso del mitico uccello (si
= trenta, morgh = uccello): ciò
che hanno ricercato non sono che essi stessi, i Trenta Uccelli:
Le anime confuse e umiliate di quegli uccelli
si annientarono compiutamente e i loro corpi arsero sino a ridursi a mucchietti
di cenere. Non appena si furono spogliati di ogni terreno aspetto, vennero
rivestiti della vivificante luce emanata da quella presenza, e in tal modo
per loro iniziò un’esistenza radicalmente diversa. Un ignoto stupore rapì
le loro menti e tutto quanto in passato avevano vissuto o non vissuto venne
sradicato e rimosso dai loro animi. Finalmente il fulgido sole dell’intimità
rifulse su di loro e i suoi raggi vennero riflessi dallo specchio delle loro
anime. Nell’immagine del volto di Simurgh contemplarono il mondo e dal mondo
videro emergere il volto di Simurgh. Osservando più attentamente si accorsero
che i trenta uccelli altri non erano che Simurgh, e che Simurgh era i trenta
uccelli: infatti, volgendo nuovamente lo sguardo verso Simurgh, videro i trenta
uccelli, e guardando ancora se stessi video lui. O meraviglia, questo era
quello e quello era questo! Quando mai nel mondo si era assistito a un simile
prodigio?
(traduzione di C. Saccone)
[7]
L’acme
del masnavi mistico viene raggiunta
pochi anni dopo la morte di ‘Attâr dal celebre poeta Moulânâ Rumi con il suo
Masnavi-ye ma‘navi (Poema spirituale),
che è stato definito un “Corano in lingua di Persia” poiché può essere letto
come commentario o trasposizione in senso mistico della spiritualità del libro
sacro dell’Islam. Di particolare interesse è per noi l’apertura del poema,
il noto “Canto della Canna” (o del Flauto), che narra la storia della “separazione”
dal luogo di origine:
Ascolta
il flauto di canna, com’esso narra la sua storia, com’esso triste lamenta
la separazione:
«Da quando mi strapparono dal Canneto, ha
fatto piangere uomini e donne il mio dolce suono!
Un cuore voglio, un cuore dilaniato dal
distacco dell’Amico, che possa spiegargli la passione del desiderio d’amore.
Ché chiunque lungi rimanga dall’origine
sua, sempre ricerca il tempo in cui vi era unito!
Io in ogni assemblea ho pianto le mie note
gementi, compagno sempre degli infelici e dei felici,
e tutti si illusero, ahimé, d’essermi amici,
e nessuno cercò nel mio cuore il mio segreto più fondo.
Eppure il segreto mio non è lontano, no,
dal mio gemito:
sono gli occhi e gli orecchi che quella
Luce non hanno!
(Traduzione di A. Bausani)
[8]
In
questo passo il flauto di canna fornisce a Rumi un simbolo ideale dell’anima,
che, strappata dalla dimensione eterna della propria esistenza, come il flauto
dal canneto, lamenta la propria separazione e racconta i segreti dell’amore
e del desiderio.
[9]
Un
altro passo interessante è inoltre il seguente, in cui il poeta, dimostrando
un forte senso della natura e ammirazione per essa, ne sottolinea la gerarchica
sottomissione a Dio:
«L’acqua del mare è tutta agli ordini Tuoi;
tuoi, o Signore, sono l’Acqua e il Fuoco. Se Tu lo desideri, il fuoco diventa
Acqua dolcissima, se non vuoi, anche l’Acqua può diventare Fuoco… Rami e foglie
si son liberati dalla prigione della terra, alto han levato il capo e sono
diventati compagni dell’aria. Quando le foglie erompono dalla scorza del ramo
e s’affrettano alte sull’albero, con la lingua del germoglio cantano la lode
di Dio, ogni frutto e ogni foglia, una per una. Gli spiriti legati entro l’acqua
e la terra, quando lieti si liberano dalla prigione del fango, si levano alti
a danza nell’aria, ebbri d’amore di Dio, puri e limpidissimi come il disco
bianco della Luna. Danzano i corpi loro; quanto alle anime, quel che esse
provano non chiederlo neppure!»
(Traduzione di A. Bausani)
[10]
È
soprattutto nella lirica del ghazal
però che la mistica persiana trova la sua più alta espressione, e sono
pochi i poeti a non aver contribuito in qualche misura a questa forma. Il ghazal, il cui nome
arabo significa “canzone o elegia d’amore”, oscilla come dicemmo tra i 5 ed
i 15 versi, ma può arrivare ad averne anche più di 30; in essa ogni verso
rima con gli altri e inoltre, nel primo, detto matla,‘
anche il primo emistichio segue la rima generale (a-a-b-a-c-a-d-a-ecc.). L’ultimo verso, il maqta‘, contiene solitamente lo pseudonimo poetico, o nom de plume dell’autore (takhallos): esso è inserito con qualche
abile giro di parola nel contesto del verso.
La
tradizione letteraria persiana identifica Sanâ’i come l’ “inventore” o l’iniziatore
del ghazal sufi. In realtà i suoi
ghazal sono ancora “acerbi” dal
punto di vista dei contenuti mistici e molto spesso le loro immagini paiono
più legate alla dimensione cortese/terrena che non a quella mistico/metaforica.
È quasi sicuro però che i suoi ghazal venissero recitati e musicati durante i samâ’, le riunioni mistiche con canti, suoni e danze che si svolgevano
all’interno delle confraternite sufi, ed è molto probabile che le immagini
in loro descritte servissero ad illustrare e simboleggiare dei concetti religiosi.
Dell’usanza
di recitare e cantare ghazal durante
le riunioni mistiche abbiamo testimonianza
sin dall’XI secolo, grazie al primo trattato sul sufismo scritto in persiano,
il Kashf al-mahjub (Disvelamento dell’occulto) di ‘Ali Ebn
‘Osman Hojviri (m. 1057). In esso, parlando del sama’, l’autore si sofferma su quanto viene recitato durante queste
sedute. Oltre al Corano, egli scrive,
alcuni mistici sono soliti recitare poesie in lingua persiana che fanno largo
uso di metafore ed allegorie. Queste, per loro, ricordano Dio, e permettono
a colui che ascolta di entrare in uno stato d’estasi e di comunicare con Lui.
Hojviri però considera sconveniente questo genere di poesia e si direbbe memore
delle correnti ascetiche del primo sufismo, affermando che solo la poesia
«di saggezza, d’edificazione e riflessione sulle manifestazioni divine» può
essere considerata ‘buona’ e lecita. Di opinione diversa è però un altro autore
d’origine persiana, il grande teologo e mistico Mohammad Ghazâli (m. 1111),
che tratta la questione in una vasta discussione, sempre sul sama’, contenuta sia in Ihya’
‘olum al-din (Ravvivamento delle
scienze religiose, in arabo) sia in Kimiyâ-ye
sa’âdat (L’alchimia della felicità,
in persiano). Egli ritiene che le poesie d’amore o ‘bacchiche’ recitate
dai sufi o dai partecipanti al sama’
non siano sconvenienti, poiché ogni Concetto (ma’ni)
espresso in esse si riferisce a Stati mistici (hâl) ben determinati; egli afferma inoltre che i termini metaforici
tipici del linguaggio poetico si collocano su un piano diverso da quello dei
termini tecnici e denotativi del sufismo come fanâ (annullamento) o baqâ
(permanenza eterna in Dio) e cioè sul piano della poesia, dell’immaginazione
creatrice, e non della ragione.
È
il pensiero di Ghazâli ad affermarsi tra mistici e poeti e dopo Sanâ’i, la
lirica sufi persiana conosce il suo essor
grazie ad autori quali, ‘Attar, Rumi, ‘Erâqi, Sa’di, Hâfez e Jâmi. Il contenuto
spirituale delle loro composizioni non è dunque più messo in discussione,
e tra i mistici si avverte la necessità di fissare e di commentare le metafore
utilizzate. Ecco dunque che in alcuni testi persiani, come l’ Ourâd al-ahbâb va Fosus al-âdâb (Le invocazioni
degli amanti e il biasimo delle regole) di Abu’l-Mofaker Yahya Bâkharzi
(m. 1281), o il Rashf al-alhâz fi kashf
al-alfâz (L’assaggio delle allusioni
nello svelamento delle parole) di Sharaf al-Din Hoseyn Ebn Olfati Tabrizi
(XIII-XIV sec.)
[11]
troviamo la definizione e la spiegazione di numerosi termini
ed espressioni utilizzate nella poesia persiana.
[12]
Quest’ultimo
trattato rivela in parte l’influenza del pensiero di Ebn ‘Arabi (m. 1240),
pensiero che ebbe senza dubbio notevoli ripercussioni sia sulla lirica mistica
persiana che sull’uso che in essa si fa delle metafore. Della teosofia del
noto mistico musulmano è di particolare interesse per noi l’interpretazione
che egli dà dei rapporti tra Essenza Divina e sue Manifestazioni, tra Principio
e Universo: Ebn ‘Arabi ritiene che Dio non può essere considerato né assolutamente
‘altro’ dagli esseri, né assolutamente ‘simile’ ad essi, e tale visione investe
da vicino la poesia persiana, poiché indaga la possibilità e la liceità di
assimilare le realtà divine ad elementi naturali. Di grande importanza è dunque
l’opinione espressa a tal proposito da questo mistico: «Sappi che per le genti
della Signoria divina l’affermazione esclusiva dell’ ‘alterità’ (tanzih) di
Allah equivale a limitarLo e vincolarLo…. Ugualmente, chi afferma soltanto
la ‘somiglianza’ (tashbih) ad esclusione dell’ ‘alterità’, Lo vincola, Lo
limita e non Lo conosce affatto. Ma colui che, nella propria conoscenza, riunisce
al contrario l’ ‘alterità’ e la ‘somiglianza’, e Lo qualifica di entrambi
questi aspetti… Lo conosce realmente, in modo sintetico e non distintivo.»
[13]
La
teosofia di Ebn ‘Arabi viene assimilata e rielaborata nei secoli successivi
in una lunga serie di testi e commentari, per lo più in arabo. Nel mondo persiano,
però, è la poesia a funzionare da veicolo di diffusione degli insegnamenti
della scuola ‘arabiana, e tra le opere più rilevanti ispirate in parte alla
filosofia del grande mistico, ricordiamo il poemetto Golshan-e râz (Il roseto del
mistero) dell’azerbaijano Mahmud Shabestari (m. 1320): un masnavi di circa mille distici in risposta
a diciassette domande poste da un sufi del Khorâsân in merito alla teosofia
mistica e alla via spirituale. L’autore tocca la maggior parte dei temi basilari
del sufismo e nell’ultima sezione del poema indugia sul significato di alcuni
termini metaforici di uso frequente nella poesia persiana. Ne riportiamo qui
due brevi passi:
L’esistenza è un mare,
le parole sono le sue sponde; le conchiglie sono le lettere, le perle l’intima
conoscenza . Ogni onda proietta mille perle, regali della tradizione e dei
testi sacri. Ad ogni attimo si infrangono migliaia di onde, eppure l’acqua
non diminuisce d’una goccia. Il sapere e la conoscenza nascono dentro questo
mare, che ne avvolge le perle della voce e della scrittura.
[14]
E
ancora:
Quando i termini [metaforici]
sono uditi dall’orecchio, essi richiamano innanzitutto alla mente cose tangibili.
Il mondo dello spirito è infinito, e come potrebbero delle parole finite raggiungerlo?
Come potrebbero i misteri contemplati nella visione estatica essere interpretati
per mezzo di parole? Quando i mistici discutono di tali misteri, li traducono
attraverso delle immagini, poiché le cose tangibili sono come ombre in questo
mondo, e questo mondo è come un fanciullo appena nato di cui Egli è la balia.
Io credo che questi termini
siano stati assegnati ai misteri fin dal Principio, nel loro significato originale,
e che solo in seguito siano stati attribuiti a cose reali per essere usati
dal volgo (che cosa ne sa infatti il volgo di tali misteri?); solo in seguito
infatti la Ragione volse il proprio sguardo al mondo e vi trasferì termini
che provenivano da Là. L’uomo saggio fa uso dell’analogia quando rivolge il
proprio spirito alle parole ed ai misteri, e benché non si possano raggiungere
analogie perfette, nondimeno egli continua a ricercarle senza posa.
[15]
Dopo
questa sintetica panoramica, passiamo ad analizzare più da vicino i simboli
e le metafore mistiche utilizzate nella poesia persiana. Essi si possono suddividere
grossomodo nelle seguenti categorie:
1)
termini
simbolici legati a fenomeni naturali e ad elementi della natura: sole/âftâb-khworshid, luna/mâh, luce/nur, oscurità/zolmat, ombra/siyâh,
nuvola/abr, tempesta/tufân, pioggia/bârân, acqua/âb,
sorgente/chashme, inondazione/seyl, vento/bâd, brezza/nasim, polvere/dust,
verzura/sabze, fiore (rosa/gol, narciso/narges, tulipano/lâle,
violetta/banafshe), albero/derakht, cipresso/sarv,
fuoco/âtesh, terra/khâk, mare/bahr, ecc.
2)
termini
simbolici legati al tempo: tempo/zamân,
pre-eternità/azal, post-eternità/abad, alba/sobh, aurora/bâmdâd, ieri/di, giorno/ruz, notte/shab, Capodanno/nouruz,
primavera/noubahâr, estate/tâbestân, autunno/pâyiz,
inverno/zemestân, ecc.
3)
termini
simbolici legati allo spazio: deserto/biyâbân, soglia/âstân, portale/dargâh, casa/khâna, tetto/bâm, vicolo/kuy, villaggio/deh,
città/shahr, ponte/pol, mondo/jahân-‘âlam,
esistenza/koun, nulla/‘adam, ecc.
4)
nomi
di gioielli, metalli e pietre preziose: oro/zar,
argento/sim, tesoro/ganj, gemma/gouhar, smeraldo/zomorrod,
rubino/la‘al, yâqut, onice/jaz‘, perla/dorr, ecc.
5)
nomi
di animali: usignolo/bolbol, corvo/zâgh, aquila/‘oqâb, fenice/simorgh-anqâ, pesce/mâhi, conchiglia/sadaf,
serpente/mâr, gazzella/âhu, upupa/hodhod, cane/sag, ecc.
6)
termini
legati all’allegoria del viaggio: viaggio/safar,
via/râh, strada/tariq, valle/vâdi, nave/keshti, mare/bahr-daryâ, annegamento/gharq,
provviste/tushe-zâd, carovaniere/sârbân, guida/râhbar, ecc.
Se
cerchiamo alcuni di questi simboli tratti dal mondo naturale nel trattato
Rashf al-alhâz fi kashf al-alfâz di Sharaf
al-Din Hoseyn Ebn Olfati Tabrizi (o Resâla-ye
Estelâhât /Trattato di terminologia
mistica di ‘Erâqi)
[16]
troviamo le seguenti spiegazioni:
Notte
(shab): la notte rappresenta il
regno del Mistero. Essa può anche riferirsi al regno della Potenza Divina
(jabarut), che divide l’Essere (vojud) dal Nulla (‘adam) e, secondo alcuni, anche il regno del Creato (khalq) e quello del Comando (amr) e il segno della sottomissione (‘obudiyat) e quello del Signore (robubiyat).
Capodanno
(nouruz): rappresenta la stazione
mistica (maqâm) della dispersione
(tafraqa).
Primavera
(bahâr): rappresenta la stazione
mistica della conoscenza (‘elm).
Rosa
(gol): rappresenta il risultato
della conoscenza che si manifesta nel cuore.
Tulipano
(lâla): rappresenta il risultato
della gnosi (ma‘âref) così come
ne è resa testimonianza dagli gnostici.
Brezza
(nasim): rappresenta il vento che
porta la Grazia Divina (‘enâyat).
Deserto
(biyâbân): rappresenta gli eventi
che possono accadere lungo il cammino mistico (tariq).
Perla
(gouhar): rappresenta le realtà
spirituali e gli Attributi Divini.
Spesso
i simboli non hanno però una corrispondenza diretta o lineare con ciò che
essi rappresentano, del tipo sole®teofania
divina, fuoco®amore
ardente del mistico per Dio, vento®Grazia
divina che raggiunge il mistico; di frequente invece essi sono delle metafore
che si sovrappongono ad altri simboli, dotandoli di un’ulteriore immagine,
di un’icona alternativa a quella originaria.
Per
capire tale concetto è necessario però precisare che il centro focale dell’interesse
dei poeti mistici non è la natura, bensì la bellezza umana, divenuta per loro
un riflesso fenomenico di quella divina. Contemplare il Bello, l’Amato, il
Testimone di Dio significa infatti per il mistico accostarsi alla realtà suprema,
alla Verità.
Ogni
componente del volto dell’Amato si è caricata nella storia della lirica persiana
di una connotazione simbolica e, benché il codice possa variare da poeta a
poeta, si possono intendere ad esempio i riccioli dell’Amato come metafora
degli imperscrutabili misteri divini, il suo volto come la rivelazione di
essi, le labbra come la compassione e la misericordia con cui Dio accorda
l’unione, l’occhio come il distacco con cui Dio osserva a mantiene al loro
posto i suoi servi, e così via.
Le
metafore prese dal mondo naturale intervengono in questo quadro arricchendolo
ulteriormente: il volto può essere così sostituito dall’immagine del sole
o della luna, il ricciolo da quella delle tenebre, le labbra dal rubino, la
bocca dal pistacchio, l’occhio dal narciso, il corpo dell’Amato dal cipresso,
ecc. Il mondo naturale viene utilizzato dunque in modo metaforico/comparativo
e diviene riflesso dell’Amato terreno: per questo motivo è anch’esso allegoria dell’Assoluto.
Giungiamo in questo modo
a comprendere una delle caratteristiche fondamentali del ghazal, ovvero la fusione di due dei suoi
motivi principali: quello erotico e quello naturalistico.
Iniziamo dunque la nostra
breve antologia presentando un ghazal di Sanâ’i, primo autore persiano ad
avere nel suo canzoniere una sezione dedicata a questa forma poetica, in cui
appare in nuce l’unione fra natura, amore e mistica.
Sanai
[17]
(pagi 807)
Da
quando ha mostrato il volto la rosa color di rubino
mai
non si stanca di cantar la sua gioia l’usignolo.
[18]
È
lungo tempo che, come me, l’usignolo
è
stato innamorato del giardino e del fiore
Non
v’è da stupirsi s’ei resta desto il giorno e la notte:
chi
mai s’è addormito avanti all’Amico?
Schiavo
son io della lingua di quell’usignolo
Che
ieri lodava cantando la rosa color di rubino.
O
Coppiere! È tempo di fiori, e tu porgi il vino fiorito;
nessuno
ordinò mai di pentirsi nella stagione dei fiori!
[19]
(traduzione di A. Bausani)
[20]
Se fosse l’intelletto
una guida nel mare dell’Amore
mai troverebbe l’approdo,
laddove il mare dell’Amore
tocca l’anima e il cuore
è muto l’intelletto,
è un lattante la ragione.
In quella coltre dell’esistenza
passano dall’Essere al Nulla
solo coloro che trovano in essa uno squarcio:
ti affanni tu per svelare
in fretta il segreto d’amore,
ma cent’anni potresti
percorrere questa via:
finché rimarrai te stesso
non svelerai nulla.
Come puoi sapere tu com’è
il dolore d’Amore
se mai la sua spada ti
ha trafitto al cuore?
Ogni mille anni, però,
alla costellazione del cuore
giunge dal cielo dell’Amore
una simile stella!
Oh ‘Attâr se scendi tu
dalla sella dei due mondi,
non rimane in entrambi
un cavaliere simile a te.
Limite alcuno non ha
questo nostro deserto,
[24]
pace alcuna non ha questo
cuore mio, quest’anima.
Universi su universi
han preso immagine e forma:
quale dunque di queste
immagini è l’immagine nostra?
Se tu vedrai per la strada
una testa mozzata
che verso la nostra piazza
sta rotolando,
chiedile, chiedile, i
segreti del cuore
e ti dirà il nostro mistero
nascosto.
Ah potesse, potesse un
orecchio mostrarsi
capace d’intendere dei
nostri uccelli il linguaggio!
Ah potesse, potesse un
uccello volare
con il rutilante collare
dell’arcano di Salomone!
[25]
Che dir dovrei dunque?
Che cosa sapere? Che questo racconto
è storia troppo alta
pel nostro limitato potere.
Ma come tenere il silenzio,
se ad ogni momento
Questa mente sconvolta
mi diventa sconvolta più ancora?
Pernici volano insieme,
e falchi
nell’aria sottile della
nostra terra montana,
in un’aria che è il settimo
cielo dell’aria,
e al cui apogeo brilla
il nostro Saturno.
Non sono i sette cieli
sotto al Trono, all’Empireo?
Ma oltre l’Empireo e
il Trono corre la nostre folle rivoluzione!
Anzi, a che parlare di
brame d’Empireo e di Cieli?
È verso il giardino d’Unione
Perfetta che vola il nostro sentiero!
Lascia questo discorso
e più non chiedermi nulla,
ché la nostra storia
è interrotta, è spezzata,
E ormai Salâh ad-Din,
l’amico,
[26]
ti mostrerà
la bellezza suprema del
nostro Imperatore e Sovrano.
(traduzione
di A. Bausani)
[27]
Sono
venuto a prenderti, a tirarti per l’orecchio
a
privarti del tuo cuore e di te stesso e a metterti nel Cuore e nell’Anima!
[28]
Son
venuto qual lieve primavera da te, o cespo di rose,
ad
abbracciarti a me stretto, e a sfogliarti dolcemente!
Son
venuto a darti posto splendente in questo sublime palazzo
per
portarti, come preghiera d’amanti, aldilà del firmamento!
Son
venuto perché hai rapito un bacio a un bell’Idolo:
restituiscilo
allora in letizia, ché son pronto a prenderlo io!
Lascia
il Fiore (gol), ché tu sei il Tutto
(kol), sei colui che ordina la divina parola
(qol),
Se
gli altri non ti conoscono, poiché sei me, ti conosco!
L’anima
mia tu sei, tu sei colui che recita la mia Fâtiha;
[29]
sii
tu stesso una Fâtiha, ch’io tutta
ti legga col cuore!
Sei
la mia preda, la mia caccia, anche se sfuggisti alla rete:
ritorna
ancor nella rete, ché, se non torni, ti acchiappo!
Il
leone m’ha detto: “Strana gazzella tu sei, corri!
Perché
m’insegui si rapida?Attenta, ch'io voglio sbranarti!”
Accetta
la ferita e corri avanti come scudo d’eroe
Attento
solo alla corda dell’arco, se non vuoi che ti pieghi come arco.
Dalla
polvere infima all’uomo ci son migliaia di tappe:
di
regno in regno ti portai, non ti abbandonerò sulla strada!
Non
dir nulla, non spumeggiare, non alzare il coperchio alla pentola,
bolli
ancora, bolli paziente:io ti farò in alto volare!
No,
ché tu sei figlio di leone nascosto in un corpo di daino
ma
io da questo velo di daino ti farò libero uscire.
Tu
sei la mia palla da polo e corri spinto dalla mia mazza
sebbene
io correr ti faccia, son io che a corsa t’inseguo!
(traduzione
di A. Bausani)
[30]
Nel
firmamento è apparsa all’alba una Luna
[31]
È
scesa dal cielo e ha rivolto a me lo sguardo.
Come
falco che strappa via un uccello qual preda
mi
rapì quella Luna e corse di nuovo nel cielo.
E
quando a me stesso guardai, più me stesso non vidi;
ché
in quella Luna il mio Corpo per grazia sottile s’era fatto anima pura!
E
quando viaggiai entro l’anima non vidi che Luna
finché
svelato fu tutto della manifestazione eterna il mistero!
I
nove cerchi del cielo s’erano immersi in quella luna,
e
la barca dell’essere mio s’era tutta in quel mare nascosta.
Si
franse d’onde quel mare, e tornò la Ragione
e
lanciò il suo grido: così fu, così avvenne.
Spumeggiò,
quel mare; e da ogni frammento di quella schiuma
di
qualcuno venne un disegno, venne di qualcosa un corpo,
e
ogni frammento di schiuma corporea che mostrò da quel mare
poi
subito si fuse e in quel mare entrò ancora;
ma
senza l’aiuto del Signore, del sole divino di Tabriz
non
si può vedere la Luna, non si può essere mare.
(traduzione
di A. Bausani)
[32]
Poi
che son servo del Sole
[33]
vi parlerò del sole;
notte
non sono, né adoratore delle notti, non parlerò di sogni.
Come
messaggero del Sole e suo interprete,
segreti
messaggi prenderò da lui e vi porterò la risposta.
E
poi che vado come sole, brillerò su rovinati deserti,
fuggirò
dai luoghi abitati, parlerò deserte parole.
Assomiglio
alla vetta d’un albero lontano dalla radice:
pur
ristretto in secca corteccia, parlerò di succoso midollo.
Se
pur son mela secca son più alto d’un albero;
anche
se ebbro e sconvolto, dico parole veraci!
Da
quando il mio cuore ha sentito il profumo della polvere della sua soglia,
[34]
ho
vergogna anche della polvere sua, non parlo che d’acqua purissima!
Togliti
il velo dal volto, ché il volto hai glorioso!
Non
permettere ch’io debba parlarti come sotto ad un velo!
Se
hai cuore di pietra, io son pieno di fuoco qual ferro;
se
assumi trasparenza di cristallo, io parlo di calice e vino!
Poi
che nato sono dal Sole come il Qobâd antico,
non
sorgerò nella notte, non parlerò di chiaro di luna.
(traduzione
di A. Bausani)
[35]
Ogni giorno all’alba
[37]
cento lamenti e preghiere rivolgo alla brezza
[38]
affinché essa porti al
Vostro quartiere il mio messaggio.
Mi lego al vento e al
vento consegno la vita,
se così non facessi,
come giungerebbe alla tua soglia la brezza?
Poiché non ho un intimo
amico discorro col vento,
poiché non trovo un unguento
cerco sollievo nel vento.
L’acqua che scende dagli
occhi non può spegnere il fuoco del
cuore,
sul quel fuoco soffio
un respiro che ancor più mi faccia bruciare.
Magari diventassi cenere
e il vento mi trascinasse via,
sarei libero dalla schiavitù
di quest’opprimente sventura!
[39]
Meglio morire, farsi
polvere, che vivere privati di te,
meglio bruciare che rimanere
separati dal tuo volto.
[40]
Non ha conforto la vita
se privata del tuo volto,
senza di esso sarà morte
o tormento la vita?
Hâfez
[41]
All’alba
[42]
mi recai nel giardino per cogliere una rosa,
d’un tratto mi giunse
all’orecchio il canto di un usignolo.
Come me, sventurato,
era impigliato nell’amore per la rosa
[43]
e aveva messo in subbuglio
il prato con i suoi gorgheggi.
Girovagavo di continuo
sul prato di quel giardino
riflettendo su quella
rosa e sul quel usignolo:
la rosa è amica di Bellezza,
e l’usignolo s’accompagna all’Amore,
all’uno attribuisci virtù,
all’altra mutevolezza.
Molte rose sono sbocciate
in questo giardino, eppure,
nessuno può cogliere
in esso una rosa senza provare dolore di spine.
[44]
Hâfez, non sperare nella
gioia che proviene da un simile mondo,
[45]
esso invero ha mille
difetti e non una sola virtù.
I re sono schiavi del
tuo ebbro narciso,
[46]
i saggi sono in rovina
per il vino del tuo labbro di rubino.
[47]
Zefiro è di te annunciatore,
[48]
e di me, le lacrime agli occhi:
se così non fosse Amato
e Amante tacerebbero i loro segreti.
Quando passi, getta uno
sguardo da sotto quel ricciolo arruffato,
guarda come in ogni dove
vi siano amanti disperati.
Sorvola, come zefiro,
quella distesa di violette
[49]
e guarda,
quanti sono ora in pena
per l’insolenza di quel tuo ricciolo.
Nostro destino è il paradiso,
vattene dunque teologo!
Solo i peccatori hanno
diritto al perdono.
[50]
Non soltanto io quella
rosa della tua gota intono ghazal
intorno a te migliaia
di usignoli giungono da ogni contrada.
Porgimi tu la mano, o
Khezr dal piede fortunato,
[51]
ché io vado a piedi e
i compagni già sono in sella.
[52]
Vieni alla taverna e
arrossa lì dentro il volto,
non recarti al convento
dagli oscuri traffici!
[53]
Mai sia libero Hâfez
da quei riccioli attorti,
libero è invero chi rimane
al tuo cappio.
[1]
Cfr. R. Bargigli, I poeti della Pleiade
ghaznavide, Milano, 1995, p. 117.
[2]
Per brevi notizie sulla vita e le principali opere di questo autore cfr.
la nota 40.
[3]
Per brevi notizie sulla vita e le principali opere di questo autore cfr.
la nota 16.
[4]
Nel Corano (IV, 171) Gesù è lo “Spirito Divino” e la lirica tradizionale
accenna sovente al suo alito vivificatore, per tale ragione il poeta in
questo verso lo paragona al vento; Jamshid è invece un mitico re persiano
di epoca preislamica a cui sono attribuiti poteri magici, tra cui quello
di spostarsi in volo sul suo trono.
[5]
Cfr. Sanâ’i, Viaggio nel regno del
ritorno, Parma, 1993, pp. 81-3. Per un commento di questo passo si veda
J.T. P. de Bruijn, Of Piety and poetry,
Leiden, 1983, pp. 200-1 e J.T.P. de Bruijn, Persian
Sufi Poetry, Richmond, 1997, pp. 90-1.
[6]
Traduzione italiana: ‘Attâr, Il verbo
degli uccelli, (a cura di C. Saccone), Milano 1986.
[7]
Cfr. ‘Attâr, Il verbo degli uccelli,
cit., p. 206.
[8]
Cfr. A. Bausani-A. Pagliaro, Storia della letteratura persiana, Milano,
1968, p. 451.
[9]
Per un’analisi più approfondita di questo passo e per ulteriori riferimenti
bibliografici si veda in particolare A. Schimmel, The Triumphal Sun – A Study of the Works of Jalâloddin Rumi, London-The
Hague, 1978, pp. 210-12. In italiano è disponibile il commento a questo
passo del poeta Jâmi (cfr. R. Zipoli, Il libro del Flauto, s.l. 1988). Il Masnavi-ye ma‘navi è stato edito, tradotto e commentato in inglese
da R. A. Nicholson (R. A. Nicholson, The
mathnawi of Jalàlu-ddìn Rùmì, Leiden-London 1925-40). Selezioni del
testo sono anche pubblicate in R. A. Nicholson, Tales
of Mystic Meaning, London 1931 e in A.J. Arberry, More tales from the Masnavi, London 1962.
[10]
Rumi, Masnavi-ye Ma‘navi, I, 1335-6;
1342-8 (traduzione italiana di A. Bausani, in Rumi, Poesie mistiche, Milano, 1980, p. 17.)
[11]
Questo trattato è stato attribuito in passato anche al poeta persiano ‘Erâqi,
con il titolo di Resâla-ye Estelâhât
(Trattato sulla terminologia (mistica)).
L’opera comprende una breve introduzione e tre capitoli, all’interno
dei quali viene interpretato il significato di circa trecento termini.
[12]
Per una panoramica sui trattati persiani relativi alla terminologia mistica
e per approfondimenti bibliografici si veda V. Zanolla, Resâla-ye Meshvâq: un trattato persiano sui termini mistici, in “Annali
di Ca’ Foscari”, XXXII, 3, 1993, pp. 97-123.
[13]
Cfr. A. Ventura, L’esoterismo islamico,
Roma, 1981, p. 23 e N. Purjavâdi, Le
probleme de la transcendance divine et de l’anthropomorphisme chez Ibn ‘Arabi
e Djalal al-Din Rumi, in “Loqmân”, I, 2, 1985, pp. 16-41.
[14]
Shabestari, vv.566-70.
[15]
Shabestari, vv.719-31.
[16]
Cfr. nota 11.
[17]
Sanâ'i Ghaznavi nacque a Ghazna o Balkh (odierno Afghanistan) verso la metà
dell’undicesimo secolo. Sono purtroppo esigue le notizie certe riguardo
alla sua vita: la tradizione vuole comunque che la sua vita si suddivida
in due periodi: durante il primo il poeta ricercò senza successo fama e
appoggio da parte del sultano ghaznavide e della sua corte, nel secondo
si dedicò totalmente all’islam e alla mistica acquisendo notorietà e fama
(anche presso l’allora regnante ghaznavide Bahrâmshâh) grazie alle sue composizioni
mistico-religiose. La data più probabile della sua morte è il 1131. Le sue
opere più famose sono i masnavi
Hadiqat al-Haqiqa (Il Verziere della Verità,
traduzione parziale in lingua inglese a cura di D. Pendlebury in Sanâ’i, the Walled Garden of Truth, London, s.d.)
e il Seyr al-‘Ebâd elâ-‘l ma‘âd (Viaggio dei Servi nel regno del ritorno, traduzione italiana a cura
di C. Saccone, cit.). Sulla vita del poeta si veda in particolare la monografia
di De Bruijn, Of Piety and Poetry,
cit. Sui suoi ghazal si veda anche
F. Lewis, Reading, Writing, Recitation:
Sanâ’i and the Origins of the Persian Ghazal, Chicago, 1995 (Ph.D. thesis)
e V. Zanolla, I ghazal di Sanâ’i nei
manoscritti più antichi, Napoli, 1999 (tesi di dottorato).
[18]
Usignolo e rosa rappresentano la coppia classica dell’amante e dell’amato
e, per estensione, del mistico e di Dio.
[19]
Il coppiere viene tradizionalmente considerato nella lirica persiana l’iniziatore
ai misteri del vino d’Amore o vino mistico. L’ebbrezza da vino d’Amore rappresenta
infatti l’estasi dei mistici, durante la quale essi afferrano qualcosa del
mistero divino. In questo verso il Coppiere offre vino nella stagione dei
fiori, la primavera, che è a sua volta simbolo della teofania divina e del
raggiungimento della conoscenza da parte del mistico (cfr. il secondo ghazal
di Rumi nella presente raccolta). Per una traduzione italiana del significato
delle principali metafore mistiche nella poesia neopersiana si veda V. Zanolla,
Un trattato persiano sui termini mistici,
cit., pp. 109-122.
[20]
Cfr. A. Pagliaro-A. Bausani, La letteratura
persiana, cit., p. 214.
[21]
‘Attâr nacque circa nel 1145-6 a Nishâpur (Iran nord-occidentale) e qui
esercitò per la maggior parte della sua vita la professione di farmacista
(da cui il suo nome, “speziale”). La tradizione vuole che egli abbia composto
le sue celebri opere nel retro della sua bottega, alternando lo studio e
la meditazione alla cura degli affari. Grazie al suo lavoro il poeta non
dovette mai dipendere economicamente da un mecenate. Perì di morte violenta
durante l’invasione Mongola di Nishâpur nel 1221. Oltre al suo Canzoniere
(Divân) e al masnavi Manteq al-teyr (Il verbo degli uccelli, cfr. nota 6) ,
sono celebri il masnavi Elâhi-nâma (Il poema celeste, traduzione italiana a cura di M.T. Granata, Milano,
1990), e il masnavi Mosibat-nâma (Il poema dell’afflizione).
[22]
In questo ghazal il poeta paragona
l’amore mistico ad un immenso mare in cui l’intelletto umano, alla ricerca
del Nulla, non ha la capacità di orientarsi (la contrapposizione amore/intelletto
ricorre spesso nella lirica persiana). Nella terminologia mistica giungere
al Nulla equivale ad estinguersi (fanâ’),
a realizzare che non esiste il sé e a comprendere che niente esiste eccetto
Dio. Il mistico che conosce il proprio Non essere, conosce anche la via
per il vero Essere.
[23]
Rumi, noto anche come Moulânâ nacque nel 1207 a Balkh (odierno Afghanistan).
Suo padre, famoso predicatore di Balkh, si trasferì ad ovest, a Samarcanda,
quando il poeta era ancora piccolo. Nel 1228 la sua famiglia si spostò ancora
una volta, questa volta verso est, a Konya dove il poeta, dopo la morte
del padre divenne discepolo del mistico Seyyed Burhân al-Din.Nel 1244 egli
incontrò Shams al-Din Mohammad Tabrizi e la loro amicizia costituì una tappa
fondamentale della sua vita. L’amore estatico che li legò suscitò invidie
fra i discepoli di Rumi, e Shams preferì allontanarsi e raggiungere Damasco.
Rumi lo ricercò senza successo e col tempo arrivò a idealizzarlo e a identificarlo
anche nel suo Canzoniere con l’Amato, utilizzando il suo nome come takhallos (Shams o Shams-e Tabrizi). Rumi
morì a Konya nel 1273. Tra le sue opere ricordiamo il già citato Masnavi-ye Ma‘navi (Poema Spirituale, cfr. nota 9) e il “Grande Canzoniere” (Divân-e Kabir) di ben 50.000 distici.Di
quest’ultimo è stata pubblicata in italiano una selezione a cura di A. Bausani
(Rumi, Poesie mistiche, cit.),
la cui introduzione illustra il pensiero filosofico-mistico del poeta; sulla
natura si vedano in particolare le sezioni “Creazione” e “Il mondo”, pp.
15-9. In inglese esiste invece un’antologia a cura di R. A. Nicholson (di
R. A. Nicholson, Selected poems from the Divân-e Shams-e Tabrizi,
Cambridge, 1898). Le quartine di Rumi sono invece state tradotte in inglese
da A. J. Arberry (A. J. Arberry, The
Rubâ‘iyât of Jalâl al-Din Rumi, London 1949).
[24]
Il deserto è sovente simbolo delle difficoltà che si incontrano nel corso
dell’esistenza o degli ostacoli in cui il mistico incorre durante il suo
cammino verso Dio.
[25]
Salomone, nella tradizione islamica, conosceva il linguaggio degli uccelli
e aveva altre virtù sovrannaturali.
[26]
Artigiano doratore di Konya, che fu per dieci anni inseparabile compagno
e amico di Rumi e suo sostituto come maestro spirituale dei suoi discepoli.
[27]
Cfr. Rumi, Poesie Mistiche, cit.
pp. 71-2 (num. 10). Nell’antologia di A. Bausani le poesie sono nella quasi
totalità ricche di riferimenti e spunti tratti dal mondo naturale; citiamo
qui di seguito quelle in cui tali riferimenti sono più numerosi: 2, 7, 10,
12, 17, 19, 23, 24, 30, 31, 32, 37,
[28]
In questa ghazal il poeta fa parlare Dio in prima persona, e lo mostra nell’atto
di stimolare e richiamare il mistico (cfr. nota 30).
[29]
Sura (capitolo) aprente del Corano.
[30]
Cfr. Rumi, Poesie Mistiche, cit.
pp. 75-6 (num. 12). Scrive a commento della poesia Bausani: “In quest’ode
iddio parla al mistico come predatore che voglia predarlo. Di qui i paragoni
del leone (Dio) e della gazzella (il mistico) e i singolari e paradossali
capovolgimenti (la gazzella insegue il leone perché brama esse divorata
o viceversa?) Questo inseguimento eterno e che quello che causa l’evoluzione
degli esseri: l’Uomo eterno, all’inseguimento di Dio (o inseguito da Dio?)
passa attraverso gli stadi del minerale, del vegetale, dell’animale, per
congiungersi, all’infinito, col suo Amato (questo è il senso di “di regno
in regno ti porterai”).
[31]
La luna è il volto dell’Amato, e rappresenta qui dunque l’Assoluto. Il ghazal narra in modo abbastanza evidente
l’esperienza estatica del poeta che giunge alla coscienza dell’unità dell’Essere.
[32]
Cfr. Rumi, Poesie Mistiche, cit.
pp. 94-5 (num. 23).
[33]
Allusione al maestro/Amato Shams (sole) di Tabriz, che diviene in questo
ghazal metafora per l’Assoluto.
[34]
Nella poesia persiana strofinare il volto sulla polvere della soglia dell’Amico
è un gesto di devozione dell’amante. Il significato del verso è secondo
Bausani: “quando ho gustato il profumo della polvere della soglia dell’Amico,
anche la sua polvere mi fa vergognare di parlarne (cioè non posso nemmeno
parlarne) e parlo solo di limpidissima acqua (che, poi, in realtà è elemento
considerato superiore alla polvere, alla terra).”
[35]
Cfr. Rumi, Poesie Mistiche, cit.
pp. 117-8 (num. 37).
[36]
Il poeta ‘Erâqi nacque a Komjân, vicino Hamadân, nel 1213-4. A sei anni
era già in grado di recitare a memoria il Corano e a 17 era insegnava presso
le scuole di Hamadân. Dopo essersi unito ad un gruppo di mistici erranti
(qalandar) e aver raggiunto il Multan (in
Pakistan), divenne discepolo di Sohravardi Sheykh Bahâ al-Din Zakariyâ’
e ne sposò la figlia. Durante un pellegrinaggio sacro (hajj) raggiunse Konya, dove incontrò Jalâl al-Din Rumi (cfr. nota
23) e ne fu profondamente influenzato. Il governatore mongolo Mo'in al-Din
Parvâna divenne suo ammiratore e seguace e costruì per lui un khânaqâh (monastero) a Duqât. 'Erâqi morì
a Damasco nel 1289 e fu sepolto nel cimitero Sâlehiya accanto ad Ebn 'Arabi.
La sua opera comprende un canzoniere (Divân), un breve trattato mistico dal titolo Lama‘ât (Bagliori) e il
masnavi ‘Oshshâq-nâme (Il libro degli
amanti), intercalato da numerosissimi ghazal lirici. Per traduzioni
in italiano di passi delle sue opere si veda A. Bausani-A. Pagliaro, La letteratura neopersiana, cit. pp. 260-1
e A. M. Piemontese-G. Scarcia, Poesia
d’amore turca e persiana, s.l., 1973, pp. 141-2.
[37]
L’alba allude di solito alla preghiera mattutina (una preghiera particolarmente
cara ai sufi), durante la quale, secondo il Corano,
Dio manda i suoi angeli ad ascoltare i credenti. Molto spesso, l’alba è
per i mistici momento di visioni estatiche o intuizioni sprannaturali, e,
più in in generale, essa rappresenta l’inizio dei quel processo di svelamento
della Verità che pone fine alle tenebre della miscredenza e dell’empietà.
[38]
Nella lirica di ispirazione mistica la brezza o il vento vengono spesso
identificati come messaggeri nella relazione Dio-mistico. In questa poesia
il poeta giunge ad una personificazione del vento e lo considera non solo
ul messaggero ma anche un amico fidato.
[39]
Qui, e nei versi successivi, il poeta allude all’oppressione dell’esistenza
terrena che lo tiene separato da Dio.
[40]
Il volto dell’Amato è simbolo della teofania o, più in particolare, della
manifestazione della Bellezza divina attraverso i suoi Attributi (rappresentati
a loro volta dagli occhi, dal labbro, dal neo, dalla peluria, dai riccioli,
ecc.).
[41]
Hâfez nacque a Shirâz nel 1325 circa e sembra abbia trascorso la maggior
parte della sua vita in questa città presso la corte Mozaffaride. Ricevette
un’educazione secondo i canoni tradizionali: studiò l’arabo, le scienze
islamiche, la letteratura persiana e sin da giovane si guadagnò il titolo
di “Hâfez”, ovvero di “colui che recita a memoria il Corano”. La sua maturità
di poeta coincide con il regno di Shah Shojâ': durante questi anni la sua
fama si diffuse in tutta la Persia, nel mondo arabo ed in India. Nonostante
gli inviti ricevuti da parte di corti lontane, egli preferì rimanere presso
i regnanti Mozaffaridi e di questi vide la sconfitta per mano di Timur.
Morì a Shiraz nel 1390. Il suo celebre Canzoniere ( Divân)
è stato tradotto in tedesco da J. Von Hammer-Purgstall, Der Diwân von Mohammed Schemsed-din Hafis, Stuttgart und Tübingen,
1812-13, in inglese da H. Wilberforce Clarke, The Diwan… by Hafiz, Calcutta 1891 e da A.J. Arberry, Fifty Poems of Hafiz, Cambridge 1953. Un’antologia
in traduzione italiana è stata di recente curata da C. Saccone (Hâfez, Il
libro del coppiere, Trento, 1998).
[42]
Vedi nota 37.
[43]
Vedi nota 18.
[44]
Il poeta allude all’idea mistica che l’unione con Dio (rappresentato dalla
rosa/Amato) non si possa raggiungere senza aver provato il dolore del distacco
e della ricerca.
[45]
Il poeta si riferisce all’esistenza terrena, alla sorte che essa riserva
e, in toni pessimistici, ne sottolinea la manchevolezza e la fatuità.
[46]
Il narciso è simbolo dell’occhio dell’Amato, il cui sguardo distaccato allude
al fatto che Dio considera i suoi servi come qualcosa di separato e distinto
da sé (per approfondimenti sul motivo dell’occhio nella lirica mistica persiana
si veda V. Zanolla, “Chashm/Occhio in Sanâ’i, ‘Attâr e Rumi”, in Quaderni
dell’Istituto Culturale della Repubblica islamica dell’Iran, Roma, 1995,
pp. 39-136).
[47]
In questo verso il poeta accosta due diversi simboli: quello delle labbra
color del rubino che denotano il dispensare la vita e il ravvivamento dell’animo,
e quello del Vino Misitco che rappresenta invece l’Amore divino di cui il
mistico è alla ricerca. L’allusione
al vino, che porta alla rovina i saggi, s’inquadra nell’estetica malâmati (biasimo), tipica della lirica persiana e derivante da correnti
ascetiche estremiste i cui adepti cercavano nell’autodenigrazione una via
per acquistare meriti spirituali e per acquisire una più profonda consapevolezza
religioso-mistica.
[48]
Vedi nota 38.
[49]
La violetta, paragonata spesso a umile ancella della rosa/Amato, sembra
in questo caso alludere esplicitamente agli amanti.
[50]
Ritorna più evidente il tono malâmati:
solo nel peccato, accompagnato da biasimo e condanna, l’amante/mistico può
ottenere il perdono Divino e una maggiore consapevolezza sulle realtà divine.
[51]
Khezr è il nome di un leggendario personaggio preislamico divenuto nella
tradizione musulmana protettore dei viandanti. Nella letteratura persiana
esso è simbolo di iniziatore spirituale e il suo nome è legato all’episodio
della ricerca della sorgente dell’acqua di vita, situata nell’oscurità delle
tenebre, le cui acque, se bevute, danno la vita eterna.
[52]
I compagni sono in questo caso i rivali in amore del poeta.
[53]
Il poeta, sempre seguendo il filone malâmati,
invita il lettore all’ebbrezza e alla conoscenza del Vero cui essa può condurre;
egli contrappone inoltre alla taverna il convento, che identifica come luogo
di perdizione ben più reale perché abitato da sufi ipocriti o insinceri.
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