FARMACI ANTIPROTOZOARI

 

Numerosi farmaci di varia natura chimica vengono utilizzati nella cura della malaria e di altre malattie tropicali quali l’amebiasi, la tripanosomiasi (malattia del sonno) e la leishmaniasi (kalaazar). Queste malattie infettive sono provocate da agenti patogeni appartenenti alla famiglia dei protozoi ed i farmaci antimalarici, antiamebici, tripanocidi  che le combattono sono detti chemioterapici antiprotozoari.

 

Antimalarici

 

La malaria è al quarto posto tra le malattie infettive più diffuse al mondo, dopo le infezioni gastrointestinali, la tubercolosi ed il morbillo. Causata da protozoi parassiti del genere Plasmodium, la malattia è trasmessa all’uomo dalla puntura della zanzara femmina del genere Anopheles. L’avvento degli insetticidi, la cui azione distruttrice nei confronti delle zanzare apportatrici della malaria ha avuto una parte determinante per la prevenzione di questa malattia, e la scoperta di numerosi farmaci di sintesi efficaci come antimalarici ha fatto sì che la malaria sia stata debellata in molti Paesi, tuttavia essa è tuttora una malattia endemica tipica dell’Africa tropicale e di alcune zone dell’Africa settentrionale, del Sudamerica, dell’America centrale, dell’Asia e del Medio Oriente.

Recentemente si è avuta in tutto il mondo una recrudescenza impressionante di casi di malaria. E’ stato calcolato che si manifestano ogni anno tra i 300 ed i 500 milioni di casi clinici di malaria, con una mortalità che si aggira intorno a 1,5-2,7 milioni annualmente. La maggior parte di questi casi mortali riguardano bambini al di sotto dei cinque anni di età. Nel 1994 quasi 2,3 miliardi di persone, pari al 41% della popolazione mondiale, vivevano in aree a rischio di trasmissione malarica. Sebbene diffusa in tutto il mondo, il 90% dei casi sono stati riportati in Africa tropicale.

Parecchi fattori sono alla base dell’aumento della trasmissione e della diffusione della malaria. Uno di questi è lo spostamento rapido, come mai in precedenza, di popolazioni umane entro aree endemiche. Per la prima volta nella storia umana stanno avendo luogo su larga scala migrazioni sia temporanee che permanenti di popoli: nei primi anni novanta oltre 500 milioni di persone hanno attraversato ogni anno i confini internazionali. Queste migrazioni sono alimentate dalla possibilità di trasporti rapidi e dall’aumento stesso della popolazione, che ha portato all’occupazione di aree endemiche un tempo rurali.

Secondariamente, anche il degrado ambientale è fonte di preoccupazione. Il riscaldamento del globo potrebbe condurre ad un’alterazione dei modelli attuali di trasmissione dell’infezione e ad un aumento di zanzare Anopheles.

Tuttavia il vero problema è l’aumento della resistenza agli attuali chemioterapici antimalarici, che rende assolutamente necessario lo sviluppo di nuovi farmaci. Gli antimalarici che hanno rappresentato finora il sostegno principale della terapia stanno perdendo rapidamente efficacia quando usati da soli od in combinazione con altri chemioterapici contro il principale agente eziologico della malaria, il P. falciparum. Questo è vero soprattutto per la clorochina, farmaco antimalarico di prima linea negli ultimi quaranta anni: nel 1994 soltanto in America Centrale ed in Egitto non sono stati evidenziati ceppi di P. falciparum resistenti alla clorochina.

Svariate nuove classi di agenti antimalarici sono state sviluppate durante gli ultimi anni, ma per lo più presentano notevoli limitazioni. Un approccio nuovo e apparentemente promettente nella terapia antimalarica riguarda l’impiego di inibitori delle proteasi al fine di interferire con la capacità del microrganismo di degradare ed utilizzare l’emoglobina dell’ospite come fonte di nutrimento. Il parassita malarico ha una capacità limitata di sintetizzare aminoacidi e li deve perciò trovare preformati neIl’ambiente intraeritrocitario. D’altra parte la concentrazione di aminoacidi liberi all’interno degli eritrociti è insufficiente a garantire la crescita e la differenziazione del parassita, che pertanto ricorre alla degradazione dell’emoglobina per procurarsi gli aminoacidi necessari ed anche energia. Durante la fase eritrocitaria del suo ciclo vitale il Plasmodium è in grado di degradare ad aminoacidi singoli fino all’80% dell’emoglobina presente nel globulo rosso. L’interferenza con il catabolismo dell’emoglobina da parte di vari antimalarici (clorochina) determina effetti selettivamente tossici per il parassita. Sebbene l’esatto meccanismo della degradazione dell’emoglobina sia ancora da chiarire, è evidente che tanto proteasi aspartiche (plasmepsina I e II) quanto proteasi a cisteina (falcipaina) sono coinvolte nel processo catabolico. L’identificazione di inibitori specifici e non peptidici di queste proteasi potrebbe condurre alla scoperta di utili chemioterapici antimalarici di nuova concezione.

Un problema da non sottovalutare nella ricerca di nuovi chemioterapici antimalarici è l’aspetto economico. Se da un lato c’è bisogno urgente di nuovi farmaci, più efficaci e poco costosi, dall’altro non ci sono industrie con agenti antimalarici in sviluppo. Ciò è dovuto al fatto che la malaria colpisce soprattutto regioni del mondo poco sviluppate, con scarse risorse economiche e nessuna industria farmaceutica, mentre le industrie più importanti, che potrebbero applicare le moderne tecnologie del drug discovery al settore degli antimalarici, sono presenti in Europa, Stati Uniti e Giappone e sono restie ad impegnare enormi capitali in un settore della chemioterapia destinato quasi esclusivamente ai mercati del terzo mondo.

 

I tipi di Plasmodium che possono infettare l’uomo sono il P. malariae, il P. vivax, il P. ovale ed il P. falciparum. Il P. malariae provoca la cosiddetta “malaria quartana”, che è caratterizzata da accessi di febbre che si ripetono ogni quarto giorno di malattia. Il P. vivax ed il P. ovale causano la “malaria terzana benigna” con ricadute di accessi di febbre ogni terzo giorno. Il P. falciparum infine provoca la “malaria terzana maligna”, un tipo di malaria perniciosa che può essere mortale.

Nella Tavola 1 viene tratteggiato il ciclo vitale del Plasmodium. Lo sviluppo del parassita malarico avviene parte nell’uomo (ciclo asessuato) e parte nella zanzara (ciclo sessuato). Il ciclo asessuato nell’uomo inizia con la puntura da parte della zanzara Anopheles infetta, che con la saliva inietta nella corrente sanguigna dell’ospite i plasmodi sotto forma di sporozoiti. Questi raggiungono il fegato ed invadono le cellule del parenchima epatico dove si sviluppano in schizonti esoeritrocitari o tissulari. Grazie alla più elevata velocità di replicazione del DNA finora vista in cellule eucariotiche, nel giro di dieci giorni da ogni singolo parassita originano circa 10.000 nuovi parassiti, detti merozoiti, che ritornano nel sangue ed invadono gli eritrociti. Qui il Plasmodium continua il suo ciclo replicativo asessuato dando vita agli schizonti eritrocitari (dapprima schizonti anulari, poi trofozoiti ed infine schizonti), ognuno dei quali contiene circa 20 merozoiti figli. A questo punto i globuli rossi si rompono ed i merozoiti diffondono nel sangue andando ad infettare ciascuno un nuovo globulo rosso, cosicché nel giro di pochi giorni il numero dei merozoiti può arrivare a 1011! Questo ciclo eritrocitario richiede 48 ore per il P. falciparum e gli accessi di febbre che caratterizzano il decorso della malaria vengono a coincidere con la lisi degli eritrociti e la conseguente infezione di nuovi globuli rossi.

Durante il ripetersi dei cicli asessuati però una piccola quantità di merozoiti segue una differente via di sviluppo formando gametociti maschili e femminili che vengono a trovarsi in circolo nel sangue. Quando la zanzara succhia il sangue di un individuo infetto, dai gametociti si liberano nell’intestino dell’insetto il gamete maschile e quello femminile ed ha luogo il processo di fecondazione (ciclo sessuato) con formazione dello zigote. Questo si va a localizzare nella parete dell’intestino della zanzara dando l’ovocisti, all’interno della quale da un singolo zigote originano circa 10.000 sporozoiti, che passano infine nelle ghiandole salivari dell’insetto e da qui con la puntura nuovamente nell’uomo, completando così il ciclo sessuato. Durante questo ciclo sessuato possono avvenire nel parassita le mutazioni genetiche responsabili della diffusione della chemioresistenza.

 

I farmaci antimalarici, a seconda dello stadio del ciclo vitale del Plasmodium sul quale agiscono, vengono divisi in schizonticidi, sporonticidi (gametocidi) e schizonticidi tissutali.

I farmaci schizonticidi agiscono sui parassiti asessuati nella fase eritrocitaria; essi curano la febbre provocata dalla malaria e determinano la guarigione clinica.

I farmaci sporonticidi mirano alla distruzione dei gametociti presenti nel sangue dell’uomo per evitare che l’infezione possa trasmettersi dall’uomo alla zanzara. In tal senso viene attuata una profilassi causale, ma solo dall’uomo alla zanzara, mentre non esiste un profilattico ideale che inibendo lo sviluppo del parassita a livello degli sporozoiti impedisca lo svolgersi della fase eritrocitaria e quindi il manifestarsi della sintomatologia clinica dell’infezione (accessi di febbre).

I farmaci schizonticidi tissulari vengono usati per distruggere le forme infettive del parassita di tipo esoeritrocitario, rimaste nell’organismo dell’uomo dopo la guarigione clinica (distruzione delle forme eritrocitarie); in tal modo, con la distruzione di entrambe le forme si perviene ad una guarigione radicale.

Infatti il trattamento soppressivo con farmaci schizonticidi, che porta alla cessazione delle manifestazioni cliniche della malattia, lascia indenne il parassita nella fase esoeritrocitaria sicché si possono avere attacchi malarici, cioè delle ricadute, dopo un certo periodo di tempo dalla cessazione della somministrazione dell’antimalarico. Ciò non avviene quando si realizza una guarigione radicale.

I migliori schizonticidi, capaci di determinare la guarigione clinica sono la clorochina, l’amodiachina e la meflochina. Qualora si instauri chemioresistenza nei loro confronti si fa ancora oggi ricorso alla chinina, antimalarico naturale che recentemente è stato rivalutato dato il numero sempre crescente di plasmodi clorochina-resistenti.

Proguanil e pirimetamina, pur provvisti di attività schizonticida, vengono preferiti nel trattamento profilattico, che segue quello soppressivo, come schizonticidi tissutali e gametocidi.

 

I farmaci antimalarici attualmente usati in terapia appartengono alle seguenti classi:

1. Derivati aminochinolinici

2. Antimetaboliti

3. Derivati dell’artemisinina

4. Antibiotici

 

 

1. Derivati aminochinolinici

 

La chinina è il più antico farmaco antimalarico. E’ un alcaloide[1] otticamente attivo (levogiro) che si estrae dalla corteccia di china; la droga officinale è la corteccia che si ricava dal tronco e dai rami di varie specie di piante del genere Cinchona[2] (C. ledgeriana che fornisce la china gialla, C. succirubra da cui si ricava la china rossa e C. calisaya), appartenenti alla famiglia delle Rubiacee.

La corteccia di china è stata usata per molti secoli come febbrifugo dagli indigeni dell’America Meridionale e da alcune popolazioni dell’Oriente. L’azione farmacologica della droga, nota in Europa dal 1683, è dovuta alla presenza di alcuni alcaloidi, contenuti nella percentuale del 7-8%. Tra il 1811 ed il 1847 vennero isolati i quattro alcaloidi principali della china, denominati chinina, chinidina, cinconina e cinconidina. Nel 1945 è stata effettuata la prima sintesi della chinina e solo nel 1970 è stato possibile realizzare una sintesi stereospecifica dei principali alcaloidi della china. Oltre ai quattro già menzionati, sono presenti nella droga vari altri alcaloidi, una ventina circa, tutti di scarsa importanza chimica e terapeutica.

La chinina viene estratta industrialmente dalla corteccia di china polverizzata ed impastata con latte di calce ed una piccola quantità di idrato sodico, utilizzando come solvente petrolio o benzine pesanti. L’alcaloide messo in libertà dai suoi sali viene estratto insieme agli altri alcaloidi presenti dal solvente organico tenuto sotto agitazione meccanicamente a 50 °C. Si lascia quindi sedimentare il miscuglio e lo strato organico viene separato. La soluzione organica viene dibattuta in una vasca con una soluzione di acido solforico diluito, cosicché gli alcaloidi passano nella fase acquosa come solfati. Per neutralizzazione con carbonato sodico si ottiene il solfato basico di chinina (C20H24N2O2)2 • H2SO4 • 8H2O poco solubile in acqua, che precipita e viene poi purificato per cristallizazione da acqua, previa decolorazione con carbone animale. Nelle acque madri sono presenti chinina, chinidina, cinconina e cinconidina che si possono frazionare per trattamento dapprima con tartrato sodico (chinina e cinconidina) e poi con idrato sodico (cinconina, chinidina).

La chinidina è il diastereoisomero destrorotatorio della chinina. Pochissimi anni fa è stato dimostrato che la chinidina, contrariamente a quanto si riteneva in passato, è più attiva della chinina, ma purtroppo anche molto più tossica per cui non è utilizzabile come antimalarico. Mostra notevole attività antiaritmica ed in tale veste occupa un posto preminente fra i farmaci cardiovascolari.

La chinina è un derivato del rubano (Tavola 2) in cui il nucleo chinolinico è legato a quello chinuclidinico, o 1-azabiciclo[2,2,2]ottano, mediante un ponte carbinolico.

La presenza di 4 atomi di carbonio asimmetrici può dare luogo all’esistenza di 24 = 16 isomeri ottici. Poiché però tutti gli alcaloidi in esame presentano la stessa configurazione ai centri stereogenici in posizione 3 e 4, la differenza che esiste tra chinina e chinidina (tra cinconina e cinconidina per i composti senza il metossile) è imputabile solo ai centri di asimmetria in 8 e 9. Questi possono determinare l’esistenza di quattro isomeri ottici ed è stato visto che le configurazioni uguali sono possedute dalle coppie chinina-cinconidina (ambedue levogire, disposizione equatoriale o exo del gruppo carbinolico rispetto al nucleo chinuclidinico) e chinidina-cinconina (ambedue destrogire, disposizione assiale o endo del gruppo carbinolico rispetto al nucleo chinuclidinico). Quest’ultima disposizione spaziale permette la formazione di un legame idrogeno intramolecolare nella chinidina (e la cinconina), cosa che non è possibile per la chinina (e la cinconidina). Ciò comporta una diversità nelle caratteristiche chimico-fisiche e nel comportamento farmacologico.

La chinina è usata in terapia come base triidrata o sotto forma di sale (solfato acido, solfato neutro, cloridrato, dicloridrato). E’ un ottimo antimalarico, specie nei casi in cui si sviluppi chemioresistenza agli antimalarici di sintesi, e porta alla guarigione clinica. Possiede anche azione antipiretica ed analgesica; trova talora utilizzazione come amaro stomachico e per stimolare le doglie delle partorienti durante il travaglio. Come antimalarico soppressivo la dose usuale è di 400 mg al dì per via orale; negli attacchi acuti la dose è di 0,6-1 g al giorno per tre volte. Il suo uso prolungato può provocare cinconismo, stato patologico caratterizzato da ronzio alle orecchie, nausea, cefalea, disturbi visivi e addominali. La dose mortale ammonta a circa 8 g.

La scarsa disponibilità di corteccia di china sul mercato mondiale ha indotto alcuni decenni fa i ricercatori ad elaborare antimalarici di sintesi prendendo a modello la struttura della chinina. Tra i prodotti di semplificazione molecolare della chinina troviamo derivati 8-amminochinolinici e 4-amminochinolinici. Tra i primi la primachina ed il suo derivato bulachina (introdotto in terapia nel 2000) rivestono attualmente una certa importanza quali sporonticidi e schizonticidi tissutali, mentre tra i derivati 4-amminochinolinici di interesse terapeutico abbiamo la clorochina e la amodiachina. Infine la meflochina ha una struttura riconducibile al sistema del 9-rubanolo (Tavola 3).

La sintesi della primachina o 8-(4’-amino-1’-metilbutilamino)-6-metossichinolina viene realizzata a partire dalla 4-metossi-2-nitroanilina (Tavola 4), che per trattamento con glicerina, acido solforico ed anidride arsenica (sintesi di Skraup) fornisce la 6-metossi-8-nitrochinolina. Da questa per riduzione catalitica (H2, Pd) si ottiene la corrispondente amina, che per reazione con il 2-bromo-5-ftalimidopentano conduce all’intermedio ftalimidico. La rimozione del gruppo proteggente ftalimidico porta alla primachina. Il bromoderivato necessario per l’inserimento della catena laterale si ottiene a partire dal 2-metiltetraidrofurano, che per trattamento con acido bromidrico fornisce il 2,5-dibromopentano. Questo reagisce con potassioftalimide secondo una reazione SN2 per dare il derivato desiderato.

La sintesi della bulachina viene realizzata per condensazione base-catalizzata della primachina con il 3-acetil-g-butirrolattone.

La sintesi della clorochina o 7-cloro-4-(4’-dietilamino-1’-metilbutilamino)chinolina si attua a partire dalla 3-cloroanilina (Tavola 5) che viene condensata con il sale sodico dell’ossalacetato di etile in acido acetico glaciale. Il prodotto di condensazione viene ciclizzato per riscaldamento ad alta temperatura usando come solvente olio minerale o una miscela di difenile e difeniletere. Dei due isomeri che si ottengono viene utilizzata la 2-etossicarbonil-4-idrossi-7-clorochinolina, che è saponificata in ambiente alcalino e quindi decarbossilata per riscaldamento a 4-idrossi-7-clorochinolina. Per clorurazione con ossicloruro di fosforo e trattamento con fenolo a fusione si arriva alla 4-fenossi-7-clorochinolina. Questa per reazione con 4-dietilamino-2-metilbutilamina fornisce la clorochina. La catena laterale si sintetizza da ossido di etilene e dietilamina. Il dietilaminoetanolo ottenuto viene clorurato e fatto reagire con l’estere acetacetico (sale sodico). Per idrolisi acida dell’estere formatosi si perviene al 5-dietilamino-2-pentanone, che viene trasformato per aminazione riduttiva (idrogeno e ammoniaca metanolica su Nichel-Raney a 100 °C e 50 atmosfere) nel composto richiesto.

La clorochina è uno schizonticida di scelta primaria. Uccide anche tutte le forme esoeritrocitarie in tutti gli stadi di sviluppo del parassita, con esclusione degli sporozoiti e dei plasmodi presenti all’interno delle cellule epatiche. Effetti collaterali: cefalea, disturbi gastrointestinali e visivi, agranulocitosi.

A partire dalla 4,7-diclorochinolina (Tavola 6) si ottiene l’amodiachina per reazione con 3-dietilaminometil-4-idrossianilina, a sua volta ottenuta per deacetilazione del prodotto risultante dalla reazione di Mannich tra formaldeide, dietilamina e 4-idrossiacetanilide.

La amodiachina è uno schizonticida attivo su varie forma di malaria, in particolare sul P. falciparum. Effetti collaterali: nausea, vomito, diarrea, leucopenia.

La meflochina è un antimalarico somministrato per os. Introdotto in terapia come racemo nel 1975 è molto efficace nel trattamento della malaria da P. falciparum resistente ad altri chemioterapici. Presenta un elevato tempo di semivita, cosa che può facilitare l’insorgere della chemioresistenza.

Per quanto attiene al meccanismo d’azione dei derivati aminochinolinici si ritiene che, grazie alle loro proprietà debolmente basiche, questi composti si accumulino nei vacuoli (che presentano un ambiente acido) delle cellule infettate dai trofozoiti impedendo che in questi organelli si abbia la degradazione catabolica dell’emoglobina, tramite l’inibizione dell’enzima eme polimerasi.

 

2. Antimetaboliti

 

Essenziale per la sopravvivenza e lo sviluppo del parassita malarico è la sua estrema capacità di sintetizzare in maniera altamente efficiente basi pirimidiniche, dal momento che non è in grado di utilizzare quelle preformate dell’ospite. Gli antimetaboliti usati come antimalarici interferiscono con il ciclo dell’acido folico e quindi con il trasporto dell’unità monocarboniosa, processo fondamentale per produrre basi nucleiche. Gli antifolici di tipo 1 includono sulfamidici e solfoni (sulfametossazolo, sulfalene, dapsone) e competono con il PAB (acido p-aminobenzoico) per l’enzima diidrofolato sintetasi. Gli antifolici di tipo 2 competono con l’acido diidrofolico ed inibiscono la diidrofolato reduttasi. Gli antifolici di tipo 1 sono blandi antimalarici e non vengono usati da soli, ma solamente in combinazione con antifolici di tipo 2 come il cicloguanil (metabolita del proguanil) e la pirimetamina.

Il proguanil è un derivato biguanidico che è risultato attivo come schizonticida e gametocida. La sua sintesi (Tavola 7) si attua facendo reagire il sale di diazonio della 4-cloroanilina con diciandiamide. Per decomposizione dell’addotto in ambiente acido si ottiene la 4-clorofenildiciandiamide, che addiziona isopropilamina a dare il proguanil. In realtà si tratta di un profarmaco, che in vivo subisce una ciclizzazione ossidativa con formazione del metabolita attivo, il cicloguanil. Quest’ultimo è stato quindi introdotto in terapia come cicloguanil pamoato.

Il passaggio dal cicloguanil ai corrispondenti derivati diaminopirimidinici rappresenta la logica conseguenza nelle varie tappe che hanno caratterizzato le ricerche chimiche di sintesi di nuovi chemioterapici antimalarici. Evidenti sono infatti le analogie strutturali tra la pirimetamina o 2,5-diamino-3-etil-4-(4’-clorofenil)pirimidina ed il cicloguanil. La pirimetamina è un ottimo antimalarico, usato come profilattico e soppressivo (gametocida e schizonticida).

La sintesi della pirimetamina  si realizza a partire dal 4-clorotoluene secondo la sequenza di reazioni descritte nella Tavola 8.

 

 

3. Derivati dell’artemisinina

 

L’artemisinina, un lattone sesquiterpenico contenente un gruppo perossidico isolato da Artemisia annua (assenzio), è stata usata nella medicina popolare cinese per il trattamento sintomatico della febbre fin dal 341 d.C. Strutturalmente non ha punti di contatto con altri antimalarici ed è attiva contro la malaria da P. falciparum e da P. vivax. Problemi associati ad un’elevata frequenza di recrudescenza, scarsa solubilità, bassa emivita plasmatica, limitata biodisponibilità orale hanno indirizzato i ricercatori verso la scoperta di derivati con proprietà farmacocinetiche migliori, attraverso la formazione di eteri (metilico ed etilico) ed esteri (emisuccinato sodico) del corrispondente lattolo.

 

 

R =   =O: Artemisinina

 

R =   OCH3: b-Artemether

 

R =   OCH2CH3: b-Arteether

 

R =   OCOCH2CH2COONa: a-Sodio Artesunato

 

Fondamentale per la sopravvivenza del parassita malarico è l’ambiente non-ossidante dell’eritrocita. I derivati dell’artemisinina si concentrano negli eritrociti infettati dal parassita e vi determinano un aumento dei livelli di radicali attivati dell’ossigeno grazie alla loro natura perossidica, rendendo in tal modo l’ambiente poco adatto alla vita del Plasmodium.

L’arteether è stato introdotto in terapia nel 2000 come soluzione in olio di sesamo destinata alla somministrazione i.m. per il trattamento di casi gravi di malaria in bambini ed adolescenti.

 

 

4. Antibiotici

 

La terapia della malaria con antibiotici è di antica data ed era caduta lentamente in disuso con la comparsa di farmaci più efficaci, quali la clorochina. Tuttavia, l’interesse per gli antibiotici in questo campo si è prontamente riacceso, data la comparsa di ceppi di plasmodio clorochina-resistenti. Oggi trovano talvolta impiego la dossiciclina ed ancor più l’azitromicina, un azalide semisintetico utile come profilattico e con proprietà farmacocinetiche migliori rispetto alla dossiciclina.


 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 



 

 


 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Si definiscono alcaloidi (il nome significa “simili agli alcali”) numerose sostanze naturali basiche che si ricavano dal mondo vegetale e più raramente da quello animale. Essi contengono uno o più atomi di azoto che fanno parte nella maggioranza dei casi di anelli eterociclici. Gli alcaloidi si ritrovano nelle piante quasi sempre salificati con acidi (lattico, malico, ossalico, tannico, citrico, tartarico, ecc...).

[2] Il nome botanico della pianta prende origine dal nome della contessa Chinchon, moglie del viceré del Perù, che fu guarita dalle febbri malariche con estratti di corteccia di china.